di Pierpaolo Farina

Ci sono momenti in cui ti chiedi se ne vale davvero la pena. Perché passi l’ideale, ma fai davvero molta fatica a restarci fedele o quanto meno difenderlo quando viene quotidianamente insozzato da persone che, a differenza tua, con l’antimafia da salotto ci fanno soldi e carriera, mentre tu stai a risparmiare anche i 50 centesimi perché di compromessi non ne vuoi fare e quindi soldi in quanto clientes non ne vuoi avere da questo o quell’ente pubblico.

Lavori anni per il tuo piccolo sogno, dimenticandoti la differenza tra il giorno e la notte, tra Natale e Capodanno, arrivando a passare per pazzo perché uno lo hai passato addirittura a finire di scrivere la voce di Totò Riina invece di stappare bottiglie e svagarti con gli amici e poi…

Poi arrivano loro, quelli che usano l’antimafia come strumento di Potere, e in quattro e quattr’otto mandano a monte mesi di lavoro rigorosamente non retribuito, tuo e dei tuoi folli compagni d’avventura, perché nell’immaginario collettivo chiunque non si occupi di fenomeno mafioso in maniera superficiale e dilettantesca fa parte della “mafia dell’antimafia”. Non conta nulla la tua storia personale e quello che hai fatto: sei colpevole a prescindere, perché se cerchi di capire e di vedere, e di far capire e far vedere, automaticamente c’è qualcosa che non va in te e non lo stai facendo perché ci credi, ma perché ci guadagni qualcosa.

Giuseppe Prezzolini, quasi un secolo fa (correva l’anno 1921) scriveva nel suo “Codice della Vita Italiana“:

L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono.

Ecco, l’antimafia la mandano avanti i professionisti, ma chi fa la bella figura sono i carrieristi. La differenza è questa.

Ma quello che mi faceva infuriare non era tanto il carrierista, quanto l’essere accomunato a lui, al suo arrivismo, alla sua totale ignoranza e deficienza. Questa era la cosa che mi faceva infuriare più di tutte, oltre a farmi male, perché noi non facciamo quello che facciamo per farci dire “bravi” da qualcuno ma perché noi alla mortalità del fenomeno mafioso in tutte le sue espressioni ci crediamo per davvero.

Da qualche tempo, però, proprio con il moltiplicarsi degli scandali e anche l’esperienza di dolorose delusioni umane sul piano personale, sono giunto a una conclusione: non ha più senso stare a perdere tempo a rodersi il fegato per questa gente. Non ha più senso dargli un’importanza che non meritano e parlare di loro, perché è un’inutile perdita di tempo. E di cose ne abbiamo fin troppe da fare, perché mentre noi stiamo a scannarci su questa o quella questione nel movimento antimafia, Loro, i mafiosi, se la spassano allegramente e fanno tutto quello che vogliono a spese nostre, della nostra libertà e della nostra vita.

D’ora in avanti dobbiamo sforzarci di andare oltre i muri che incomprensioni e modi di vedere hanno innalzato negli anni, fare rete tra le parti migliori del movimento antimafia e isolare i carrieristi e in generale tutti quelli che cercano un posto al sole nella lotta alla mafia senza fare una beneamata mazza dalla mattina alla sera.

Io ho sempre pensato alla lotta alla mafia come ad un campo dove ci sono una varietà infinita di fiori, ognuno è unico, con il suo bagaglio di esperienze e da ciascuno di questi fiori arrivano altri semi, che faranno nascere altri fiori e così, per via incrementale, ad un campo arido, magari pieno di erbacce, viene restituita la bellezza.

Perché noi lottiamo per difendere la bellezza, in tutte le sue forme. E perché non sia reso vano il sacrificio di chi ha pagato con la vita la difesa della libertà e della democrazia di questo paese.

Il problema è che moltissime persone decidono di non sbocciare, vuoi per inconsapevolezza, vuoi per indifferenza, vuoi per paura. E qui sta la tragedia, sfioriranno anche loro, ma senza essere mai sbocciati. E la mafia vince laddove i fiori smettono di sbocciare. Perché non possiamo pensare di essere autosufficienti, di bastare a noi stessi, di essere i più bravi: noi abbiamo bisogno di quella biodiversità, di quella moltitudine di esperienze. Quindi bisogna far sì che sempre più persone “sboccino”, il che significa che dobbiamo fare in modo che si possano impadronire di ogni ramo del sapere e acquistino consapevolezza.

In “Le città invisibili” Italo Calvino scriveva che:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Ecco, per me prioritario non è pensare ora come ora all’inferno, ma a tutto ciò che “inferno non è” e farlo durare, e dargli spazio. Solo così si combatte l’inferno. Solo così sempre più fiori potranno sbocciare. Solo così potremo salvare la bellezza che ci circonda e che Loro vogliono distruggere.

In tutti quei momenti in cui mi chiedo se ne valga davvero la pena, penso alla Primavera che verrà e mi do subito la risposta: ne vale sempre la pena.

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