di Demetrio Villani

Undicesima udienza: in seguito all’interrogatorio dei testimoni, si discute sulle richieste di integrazione dell’istruttoria promosse dalle parti

Milano, 5 aprile. Le porte della Corte di Assise si aprono per ospitare l’ultima udienza del processo Caccia bis prima della pausa pasquale. In aula oggi si procede con l’interrogazione di tre testimoni: Giuseppe Angemi e Maria Belfiore, richiesti dall’avv. della parte civile Fabio Repici, e Giuseppe Muzio, teste della pubblica accusa, rappresentata dal pm Marcello Tatangelo.

Il primo ad essere sentito in collegamento audiovisivo è Giuseppe Angemi, condannato nei primi anni Novanta per associazione di stampo mafioso. Il collaboratore di giustizia renderà una testimonianza estremamente deludente per la parte civile, procede infatti con una serie di “non ricordo”, “non so”. E anche agli stimoli provenienti dalle contestazioni dell’avvocato Repici sulle precedenti dichiarazioni da lui rilasciate alla Procura di Torino, Angemi non sembra aprire il suo blocco di memoria, forse dovuto anche all’età avanzata, 71 anni.

Si procede dunque con l’audizione audiovisiva di Giuseppe Muzio. Il collaboratore di giustizia, classe 1955, venne condannato per associazione di stampo mafioso nel corso degli anni Novanta, come esponente di spicco del clan dei Catanesi di Torino, composto tra gli altri dai fratelli Roberto e Francesco Miano. Il teste appare subito pronto e disposto a fornire le informazioni che gli vengono richieste. Le prime domande poste dal pm Tatangelo riguardano proprio i rapporti tra catanesi e calabresi a Torino nel corso degli anni Ottanta, rapporti di “lavoro” stretti, secondo Muzio, il quale afferma: “Loro dovevano chiederci l’autorizzazione per alcune cose altrimenti scoppiava la guerra, perché alla fine noi comandavamo”. Proprio così è stato per l’omicidio del procuratore Caccia. Muzio afferma che ci sarebbero stati vari incontri per parlare dell’attentato e che dopo un lungo periodo di tempo si sia arrivati all’accordo tra calabresi e catanesi: se ne sarebbero occupati gli uomini di Belfiore. Le ragioni dell’omicidio, fornite dal collaboratore alle domande del pm, trovano riscontro nelle dichiarazioni di molti testimoni ascoltati durante le precedenti udienze: “Rompeva le scatole, il procuratore”. Il passaggio forse più importante delle dichiarazioni di Muzio si ha però nelle risposte date all’avvocato Repici in merito ai legami tra criminalità organizzata piemontese e magistratura nel corso degli anni Ottanta. Il teste, infatti, racconta di una estrema facilità nell’“agganciare” alcuni magistrati torinesi, anche al fine di modificare l’esito di qualche sentenza.

Terminate le domande, si passa all’interrogatorio di Maria Belfiore, sorella dei più noti boss Giuseppe e Domenico Belfiore ed ex moglie di Vincenzo Pavia, collaboratore di giustizia già sentito nel corso del processo. Le domande alla signora Belfiore vengono avanzate quasi esclusivamente dall’avvocato della parte civile e vertono soprattutto sul grado di consapevolezza della testimone riguardo ai traffici e ai progetti di omicidio del procuratore, portati avanti dai fratelli. La testimone appare visibilmente provata dal suo passato, ripete più volte: “Ho smesso di volerne sapere dopo la morte di mio padre. Ho cercato di dimenticare tutto”. Non risulta infatti elevato il grado di conoscenza sulla vita criminale dei fratelli e dell’ex marito, e ricorda a tal proposito: “A noi donne ci escludevano dai loro affari”. Unica nota estremamente rilevante riguarda sempre la vicinanza, descritta anche da Maria Belfiore, tra malavita organizzata piemontese e magistratura, questa volta provata dagli incontri che avvenivano al castello di Gianfranco Gonella, criminale, vicino di casa dei Belfiore ed amante di Monique, responsabile del bar Monique situato nei pressi del tribunale di Torino, altro luogo di incontro tra malavita ed istituzioni.

Conclusa la fase delle testimonianze, è il momento delle richieste di integrazione della fase istruttoria avanzate dalle parti. Il pm Tatangelo si limita alla richiesta di acquisizione di un verbale di interrogatorio reso da Fragomeni, esponente di spicco della criminalità terroristica degli anni Ottanta, il quale potrebbe costituire un importante prova per quanto riguarda i legami tra catanesi e calabresi, anche per quanto attiene all’omicidio Caccia.

È il turno dell’avvocato Fabio Repici, il quale si lascia andare ad un’arringa decisamente appassionata. L’avvocato parla dell’impossibilità della corte di arrivare alla stesura della sentenza senza aver prima allargato la visuale sulle responsabilità che ruotano intorno all’attentato, in quanto ritiene la sentenza di condanna di Domenico Belfiore come unico mandante, uno scenario di “cartapesta” per nascondere personaggi “più importanti”. Definisce come assolutamente necessario l’approfondimento sulle indagini che il procuratore Caccia stava conducendo: “Arrivare in camera di consiglio con poche prove e per lo più ovvie è un abominio. Può la Corte d’Assise di Milano emettere una sentenza senza neanche interessarsi di colmare i buchi delle precedenti sentenze? Senza sapere neanche cosa facesse il procuratore? Questa è blasfemia”. Repici inoltre sottolinea l’importanza di avere un panorama di informazioni riguardanti il contesto criminale dell’epoca, al fine di arrivare a poter trovare la verità, che tanto è dovuta ai familiari del magistrato. Prosegue poi chiedendo l’audizione di alcuni magistrati, colleghi di Bruno Caccia, al fine di poter ricostruire il lavoro portato avanti dal procuratore in quegli anni, oltrepassando “il tabù della impossibilità di sentire in udienza i magistrati. Dobbiamo sentirli, dovete accogliere questa richiesta”. Conclude il proprio intervento descrivendo l’ambigua concessione della semilibertà a Placido Barresi, già sentito nel corso del processo, e chiedendo di analizzare il provvedimento di concessione, secondo lui viziato da qualche aiuto istituzionale.

Le richieste dell’avvocato Anetrini sono molto meno impegnative: si limita a richiedere l’intervento di un nuovo testimone in giudizio e i tabulati telefonici di Placido Barresi, per accertare chi ha sentito nel periodo delle indagini preliminari da settembre a dicembre 2015.

L’udienza si conclude su toni accesi. Prende la parola il pm Tatangelo, il quale critica in modo duro e indiretto ciò che è stato richiesto dalle altre parti, in modo particolare il suo intervento si incentra sulle forme utilizzate dall’avvocato Repici: “Qui non siamo ancora nella fase di merito, non rilascio dichiarazioni su ciò che è stato richiesto dalla parte civile né sulle forme utilizzate, io ho altri modi e forme di espressione. Mi limito a dire che quelle presentate sono solo opinioni e io, al contrario di altri, non ho la presunzione di ritenere che una mia opinione sia verità assoluta. Deciderà la corte se accogliere o meno le richieste avanzate.”

Il giudice Mannucci mette fine all’udienza, annunciando che la corte si pronuncerà con l’ordinanza di accettazione delle richieste nella successiva udienza di mercoledì 19 aprile.

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