di Mattia Maestri
Antivigilia di Natale. A contrada Palma, frazione di Trapani, l’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto ha appena fatto sedere in automobile la figlia di dieci mesi. Dall’altra parte la giovane moglie, nuovamente in dolce attesa, osserva la scena. Interrotta bruscamente da una serie quasi infinita di colpi d’arma da fuoco. Pochi istanti dopo il giovane agente trentenne è riverso a terra in una pozza di sangue, rossa come il colore del Natale.
A costargli la vita un biglietto. ‘Pizzino’ per i boss. Indicazioni strategiche che dal carcere devono varcare il muro di cinta per arrivare alla città, al quartiere, ai luoghi di potere. Montalto trova un pezzo di carta presso l’ala di massima sicurezza del carcere dell’Ucciardone di Palermo, scritto da Raffaele Ganci e destinato al capomafia catanese Nitto Santapaola. Si dirige immediatamente dai suoi superiori a denunciare l’accaduto, senza esitazioni. Un gesto semplice, naturale. ‘Senso del dovere’, direbbe qualcuno. ‘Grande coraggio’ affermerebbe qualcun altro. In realtà, per chi svolge il proprio mestiere (qualunque esso sia) con grande professionalità, non ci sono spazi aperti per quesiti o dilemmi.
E non ci sono nemmeno nella controparte. Che impone il proprio potere anche nelle carceri, per
‘comandare’ dentro legittimandosi all’esterno. Dunque, “Ninuccio manda a dire che vuole fatta una
cortesia, vuole eliminata una guardia carceraria che ‘si comporta male’”. E ancora: “Ha una Fiat Tipo
targata Torino, perché lavorava al carcere ‘Le Vallette’ di Torino”. Si mette in moto la macchina
organizzativa, che prevede i mandanti (come i boss Matteo Messina Denaro, Vincenzo Virga e Nicolò Di
trapani), l’esecutore materiale (Vito Mazzara) e gli informatori, coloro che offrono sostegno. Magari
dall’interno del palazzo o degli edifici, la Motorizzazione per esempio.
Un assassinio come monito. “In carcere comandiamo noi”, dicono i capimafia. Avvertimento da recepire per le guardie penitenziarie. Eppure, la storia di Giuseppe Montalto ci insegna che la cosa giusta da fare esiste, non senza rischi o costi. Ma c’è. Sempre. Ed è giusto ricordarlo. Magari evitando di isolare il coraggio, pensando meschinamente che si facciano scelte doverose per un avanzamento di carriera, un beneficio personale. Oppure cadere in tentazione di un guadagno materiale immediato in cambio di una informazione. Salvo pentirsene quando a cadere sull’asfalto è il corpo trucidato di un giovane uomo onesto, che si porta con sé le coscienze dei detrattori e il silenzio dei complici.
Perché è “un regalo di Natale ai detenuti, così si fanno il Natale più allegro”. Perché questa è la mafia. Una “montagna di merda”, direbbe qualcuno. “E noi ci dobbiamo ribellare!”, direbbe qualcun altro.