Sono già passati due mesi da quando mi trovai in mezzo ad una fiumana di gente vestita di bianco, nel centro di Città del Messico. Spesso il trascorrere del tempo ti toglie le parole e offusca i ricordi, portandoti via anche le sensazioni che hai provato. A me è capitato il contrario. Quando esattamente 10 giorni dopo tornai in Italia non trovai la forza mentale di scrivere, anche se spesso ne sentivo la necessità. Ma le immagini rimangono limpide ed i rumori e le voci ancora squillanti.
Quel giorno di due mesi fa era il 10 maggio, Día de la Madre, un giorno speciale per tante donne messicane. Da pochi anni alcuni collettivi di familiari di vittime e desaparecidos si trovano davanti al monumento a la madre, e dopo aver percorso insieme il Paseo de la Reforma, giungono all’Ángel de la Indipendencia. Qui si riuniscono e raccontano le loro storie di sofferenze, ingiustizie e soprusi.
Alle 10 del mattino il sole sulla capitale si fa sempre più cattivo, ma tante madri, sorelle, figlie e mogli non si fanno intimidire dall’afa soffocante. Portano tutte una maglietta, una foto, uno striscione sulla quale è impresso il volto del proprio desaparecido, spesso accompagnato da una breve descrizione personale, il colore degli occhi e dei capelli, gli anni che aveva quando qualcuno se lo portò via. Il fatto singolare è che molti dei familiari sanno esattamente chi sono i colpevoli, perché portano prove, raccolgono informazioni e sentono testimoni. Mentre le autorità brancolano nel buio ed evitano di indagare, a volte perché poco professionali e negligenti, spesso perché collusi o disinteressati. La marcia è un susseguirsi di cori cantati all’unisono. Il più ricorrente è “vivos se los llevaron, vivos los queremos”, “vivi li portarono via, vivi li rivogliamo”. Vengono i brividi quando noti che a guidare il coro è una ragazzina che a stento arriva a 10 anni, il cui urlo così violento e dolce rimane scalfito nei ricordi ancora oggi. Cerca suo padre con fierezza, e insieme alla madre e al fratellino espone la sua foto su un cartellone bianco. Come lei centinaia di famiglie camminano e gridano: “Dónde están, dónde están nuestros hijos dónde están? “Dove sono i nostri figli?” si chiedono ripetutamente tante donne unite da una maternità collettiva. Non può essere altrimenti. Ormai è riconosciuto che la desaparición è un problema strutturale del paese, dunque la lotta di una, è la lotta di tutte.
Sono quasi 23 mila le persone scomparse dal 2007 ad oggi secondo fonti del governo, ma molti attivisti e familiari parlano almeno di 26 mila messicani spariti nel nulla. Non si tratta più dei desaparecidos come all’epoca della “guerra sucia”, la guerra sporca degli anni Sessanta e Settanta, quando lo Stato faceva sparire le persone scomode, spesso leader sociali e attivisti politici “antisistema”, o personaggi legati a gruppi insorgenti. Oggi si sparisce in Messico perché sei una bella ragazza da sfruttare o vendere nel mercato del sesso, come probabilmente successe a Monica, figlia di Adela, che mi racconta i suoi ultimi anni di ricerche. Dal 2004 ad oggi lei e suo marito Manuel non hanno smesso un giorno di cercarla. Chiedo a Manuel una foto di Monica, e con orgoglio mi consegna una fototessera della ragazza allora ventunenne che conservo tutt’ora. Fu un gruppo mafioso attivo nella capitale a portarla via quel martedì 14 dicembre di 11 anni fa.
Ma in Messico oggi puoi sparire anche perché sei un ingegnere, un biologo o un chimico. I cartelli hanno bisogno di professionisti da usare per aumentare le capacità del proprio gruppo criminale. Per questo motivo sparì Matuzalem, ingegnere agronomo desaparecido per opera della polizia municipale di Torreón, e consegnato direttamente agli Zetas. Sua sorella Maria Antonia lo cerca dal 2009. La storia è simile per molte famiglie: sparisce un familiare, aspetti 72 ore perché prima non si possono avviare le procedure di ricerca, salti da una procura all’altra e da un’autorità all’altra, ma alla fine niente. DESAPARECIDO.
Maria Antonia è posata nel raccontare il calvario che sta vivendo da alcuni anni. I suoi studi universitari di diritto e l’esperienza che si sta facendo sul campo l’hanno trasformata in una vera e propria esperta in materia. Mi racconta che oggi aiuta persone che stanno cercando i propri parenti su alcuni gruppi di Facebook e gira il Messico con il collettivo di familiari di cui fa parte, FUUNDEM, a parlare della situazione dei desaparecidos. Ma della sua storia personale ha parlato per la prima volta solo a Libera, nel 2013. “Non mi aprii mai, ma loro sono gli unici che mi diedero fiducia, così raccontai”. I suoi occhi brillano quando parla del suo nipotino, figlio di Matuzalem. L’anno scorso ci passò insieme il compleanno, al santuario del Cristos de las Noas: “Entrammo nella cappella, ci sedemmo e gli dissi di parlare con Dio”, racconta piena di commozione. “Fai come se parlassi con un tuo amico. Lui ti ascolta, digli quello che vuoi”. “Sicura che posso chiedere quello che voglio? Sicura?” incalza il ragazzino, che poi ammette: “Voglio che faccia ritornare mio papà”.
Quando tornai a casa da questo breve ma intensissimo viaggio in Messico cercai spesso di assegnare un’immagine a quell’esperienza, bloccandola in un’istantanea. Per molto tempo non ci riuscii. Oggi, dopo due mesi, ricomponendo il mosaico di quei giorni, appare sempre più nitido un volto di donna. Il nuovo simbolo della resistenza civile messicana.