funerale casamonicaÈ una storia di connivenze, di omertà, di controllo del territorio. Una storia che sfocia persino nel cattivo gusto. In senso letterale: nel tripudio del kitsch, tra carrozze pacchiane ed elicotteristi «spargipetali» la targhetta «Alitalia» appuntata al petto fino a poco tempo fa.
Soprattutto, però, è una storia di paradossi. Paradossi grandi come il Colosseo, come la Città eterna, come le sue meraviglie infangate da consorterie di ogni risma: in vita, pur temuto da tutti, il nome di Vittorio Casamonica passava quasi inosservato agli occhi della grande opinione pubblica; da morto, e perciò innocuo, tutti ne parlano. Ai romani sarebbe bastato semplicemente aprire gli occhi; al resto d’Italia, una sana voglia d’informazione.

Famiglia di origine sinti, partita dall’Abruzzo e insediatasi a Roma negli anni Sessanta e Settanta, divenuta più forte grazie al legame con i Di Silvio (altro piccolo impero della malavita capitolina), i Casamonica – quartier generale tra la Romanina, il Tuscolano, l’Anagnina e Tor Bella Monaca – non sono di certo degli sconosciuti.

Nella relazione conclusiva della scorsa legislatura – un esempio tra i tanti – la Commissione parlamentare antimafia indicava il clan come «tradizionalmente dedito all’usura, all’estorsione, alla truffa, al riciclaggio, alla ricettazione e al traffico internazionale di stupefacenti», nonché in contatto con «famiglie mafiose calabresi (in particolare i Piromalli, i Molè e gli Alvaro, ndr) e siciliane». E poi, ovviamente, i legami con la Banda della Magliana, nello specifico con Enrico Nicoletti (il «Secco» reso celebre da Romanzo criminale), l’uomo che ripuliva i denari sporchi di Enrico De Pedis e compari. Bastava appunto avere lo scrupolo d’informarsi, di porsi qualche interrogativo sulla faccia oscura di Roma, ancor prima che a suggerire alcune risposte arrivasse la procura capitolina con lo tsunami di «Mafia Capitale».

unità 2008 clan usura

La piazza virtuale
Altro paradosso. Gli affari è meglio farli nell’ombra, ovviamente: restare nel «mondo di mezzo» (copyright Massimo Carminati) e trafficare lontano da sguardi indiscreti. Nell’universo della rete, tuttavia, nessuno si nasconde. È internet, oggi, la nuova arena in cui manifestare il proprio potere, la piazza virtuale che completa la piazza reale. Rosaria Casamonica, nipote di Vittorio, ha ben chiaro il proprio obiettivo: i giornalisti. «Dovete farla finita di parlar male di un defunto, il più pulito di voi c’ha la rogna. Andate a confessarvi, l’invidia è una brutta bestia. Prima di parlare pulitevi la bocca con la candeggina: questa è l’usanza nostra, ma quale mafia», commenta su Facebook, raccogliendo un tripudio di «like», di affetto, di solidarietà. Poche ore dopo, il pensiero è ribadito: «Smettetela di fare polemiche su un funerale. Giornalisti, vergognatevi: andate a scavare tutte le cose passate e le mischiate ai funerali. Che c’entra tutto questo? Anche voi siete criminali e mafiosi, perché giudicate quando non siete sicuri di quello che dite. Lui (Vittorio, ndr) è stato sempre un uomo umile e per questo tutti gli volevano bene». E ormai virale è inoltre il video in cui il compianto Vittorio si destreggia al karaoke, caricato in rete da un altro membro del parentado.

Di profilo in profilo, i Casamonica e i Di Silvio si chiudono in una strenua difesa del familiare, condividendo e commentando i link che raccontano quel funerale ormai sulla bocca di tutti. Un’omonima della nipote del boss se la prende nuovamente con la stampa: «I giornalisti stanno a fa’ troppe cazzate, andate a vedere i fatti veri che stanno in mezzo a voi, non in mezzo a noi». La televisione, l’opinione pubblica e la politica, nel mirino ci finiscono tutti. Lo sfogo è ormai un mantra. C’è poi chi augura al defunto di «stare nella gloria del paradiso» e pure chi sceglie formule meno sacre ma ben più risolute, liquidando il dibattito come «invidia e ignoranza», ribandendo come «zio Vittorio» fosse semplicemente «il numero uno», «il re di Roma». «Senti come parlano», mormora online un altro Di Silvio, tra un link di Gomorra – La serie e una foto di un’auto di lusso: «Zio Vittorio è morto e questi stanno a di’ dello spaccio, dell’usura, di questo e di quell’altro. Mi fanno schifo».

Le polemiche, già: per farsi scudo, i Casamonica-Di Silvio «adottano» pure un «ideologo». Scorrendo i vari account, ecco spuntare a più riprese un post di Vittorio Sgarbi: «Il lutto è un fatto privato. C’è materiale solo per “Striscia la Notizia”. Che debba occuparsene il ministro dell’Interno è tragicomico». Vien facile rispondere allo Sgarbi-pensiero: un fatto talmente privato che ha mobilitato carrozze, Rolls-Royce, elicotteri, vigili urbani a dirigere il traffico.

casamonica manifesto

Tra Romanzo criminale e Gomorra
Non mancano, tra gli amici delle due famiglie, i riferimenti a Romanzo criminale. C’è chi, ad esempio, aggiunge il suffisso «Er Libanese» (al secolo Franco Giuseppucci) al proprio nome reale, rendendo poi omaggio a Vittorio Casamonica ed esprimendo il proprio cordoglio ai parenti dell’ormai ex «sovrano» di un grosso spicchio di capitale (che la giustizia non è mai riuscita a condannare per associazione a delinquere di stampo mafioso, va specificato). Dalla penna di Giancarlo De Cataldo (un magistrato, prima ancora che uno scrittore) e dai ciak di Michele Placido e Stefano Sollima al mondo reale, il passo – o meglio, l’infatuazione – è breve. E pensare che dal 14 ottobre sarà nei cinema Suburra, la nuova pellicola diretta da Sollima, tratta dall’omonimo noir scritto da Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, una sorta di «Romanzo criminale 2.0» in cui, guardacaso, si narra anche della figura di Rocco Anacleti, «duca gitano», a capo di un potente manipolo di nomadi. Un confine labile, che si assottiglia ancor di più se si sommano i link sulla serie televisiva tratta da Gomorra. E riecco i paradossi: Gomorra, già, l’opera di Roberto Saviano, lo scrittore che da anni vive sotto scorta per le minacce subite dai Casalesi. Quegli stessi Casalesi spesso definiti alleati dei Casamonica.

casamonica scudo fiscale

La piazza reale. Luciano Casamonica, «mediatore culturale» di Buzzi e Carminati
Dunque, il parroco non ne sapeva nulla. Don Giancarlo Manieri, il titolare della chiesa dove si celebrata la cerimonia, si è presto difeso: «Personalmente non conoscevo il nome del boss dei Casamonica». Un ritornello ricorrente, nella «piazza reale». Da tempo, però, la famiglia è nel mirino delle forze dell’ordine. A inizi anni Duemila, il Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Roma mette gli occhi su alcuni interessi economici di Michelle Venditti, nata nelle Filippine e all’epoca convivente di Consilio Casamonica, figura di primo piano del gruppo. Partendo da alcune «operazioni sospette», gli inquirenti iniziano a scavare. Finisce che, di lì a poco, l’attività investigativa porta alla mappatura dell’intera consorteria: ne vien fuori un’intricata tela fatta di 324 soggetti imparentati fra loro, di cui 48 gravati da numerosi precedenti penali, e pure un primo sequestro preventivo – scattato il 18 giugno 2003 – dell’ammontare complessivo di 85 milioni di euro (poco dopo, la Dia sospetta anche che alcuni capitali «ripuliti» siano stati fatti rientrare in Italia grazie ai vari «scudi fiscali»). Lo stillicidio di arresti, indagini e processi non si arresta. È un libro aperto, quello che racconta della sfida tra i Casamonica e la giustizia.

Da un lato, quindi, l’usura, le estorsioni e il riciclaggio; dall’altro il traffico di droga, con caratteristiche senza dubbio interessanti: una struttura «sostanzialmente autosufficiente», annota la Direzione annuale antimafia nella relazione annuale del 2012, sia per l’approvvigionamento della «materia prima» che nelle modalità di spaccio, con ruoli intercambiabili e una certa «orizzontalità» degli organigrammi, «senza alcun capo o organizzatore». Nell’area governata dai Casamonica, rimarcano i magistrati antimafia, il controllo delle strade è «sistematico», quelle lingue d’asfalto diventano delle «enclave all’interno delle quali la polizia giudiziaria non riesce a svolgere i suoi compiti istituzionali sia per il rischio di ritorsioni violente, sia per la sussistenza di una rete di sorveglianza efficacissima, composta da punti di avvistamento controllati da sentinelle». Insomma: un antistato nel cuore dello stato, una fetta della capitale che finisce sotto il ferreo regime di un gruppo criminale.

Si spara anche, in alcuni casi. Recentemente, il 21 gennaio 2008, la gambizzazione di Enrico Casamonica è un campanello d’allarme; ad agosto nel 2013, anche Stefano Casamonica si ritrova il piombo nelle ginocchia; il mese successivo, è ancora il nome di Enrico Casamonica a finire sui giornali, altri proiettili e altre ferite alle gambe.

Il resto è storia recente. Il cognome è ciclico tra le carte di «Mafia Capitale». Per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, il clan svolge il fondamentale ruolo di «mediatore culturale» nella gestione di un delicato «affare» inerente un campo rom a Castel Romano: quando il fondatore della «Cooperativa 29 giugno» e il «Cecato» incontrano le resistenze della popolazione nomade, ecco allora giungere l’intervento di Luciano Casamonica, che in cambio dell’interessamento avrebbe ricevuto – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – un corrispettivo di 20mila euro al mese.

Infine, l’incubo di un pomeriggio di fine estate. Un funerale sfarzoso – non certo un caso isolato, nel mondo del crimine: tra i precedenti più recenti c’è quello del boss Vito Rizzuto, sepolto a Montreal in una bara d’oro – e una ridda di polemiche che è rimbalzata sui media del globo intero. Ma qualcosa – forse e finalmente – pare essere accaduto: Roma, l’Italia e il mondo si sono accorti dei Casamonica. E del loro potere, ostentato in rete e silenzioso nelle strade.

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