Ma quale ‘ndrangheta! “Le indagini hanno rivelato un mondo totalmente autoreferenziale, dove si disquisisce in modo causidico delle regole e si rimpiange il passato”.
Questa, in estrema sintesi, la tesi sposata dalla Corte d’Appello di Genova nella sentenza di secondo grado del processo Maglio 3 (emessa il 19 febbraio scorso).
Sono state depositate, pochi giorni fa, le attese motivazioni (estensore dott. Maurizio De Matteis) della pronuncia che, come noto, ha confermato integralmente la sentenza di primo grado del 9 novembre del 2012 (a firma del G.U.P. Silvia Carpanini).
Si trattava, allora, di una sentenza di assoluzione per i 10 imputati di associazione mafiosa, con la formula “perché il fatto non sussiste”, seppur ai sensi dell’art. 530 capoverso c.p.p., che riecheggia la vecchia insufficienza di prove.
Il Collegio ha aderito alla linea del Giudice di prime cure, ma si è dimostrato ancor più severo nel giudizio demolitorio delle tesi del pubblico ministero.
La pronuncia d’appello muove da un’analisi della fattispecie in questione (art. 416 bis c.p.), che risulta caratterizzata dalla pluralità degli obiettivi del programma associativo (commissione di delitti/gestione di attività economica/condizionamento elettorale/profitti ingiusti), ma soprattutto dall’impiego del cd. “metodo mafioso” (forza intimidatrice del vincolo associativo, produttiva delle condizioni di assoggettamento ed omertà nell’ambiente circostante). Rispetto all’associazione per delinquere tradizionale, diversi risultano – quindi – i mezzi utilizzati, così come (potenzialmente) diversi possono rivelarsi i fini perseguiti.
L’uso dell’indicativo “si avvalgono” (della forza d’intimidazione ecc.) indica, ad avviso del Collegio, che siamo in presenza di elementi costitutivi del reato: “l’assoggettamento deve sussistere e non essere meramente potenziale […] E’ dunque impossibile anche solo sul piano naturalistico che un’associazione mafiosa non si manifesti all’esterno”.
La Corte, dopo questo chiarimento, procede all’esame del motivo centrale dell’impugnazione del pm Alberto Lari, fondato sull’interpretazione evolutiva del 416-bis, che si è affermata in alcune recenti pronunce della Cassazione.
In particolare, nell’inchiesta-gemella “Albachiara”, la Suprema Corte ha confermato le condanne inflitte dalla Corte d’Appello di Torino, con un ragionamento innovativo che non mette in discussione la struttura della norma, bensì si limita a re-interpretarla, alla luce di una recente scoperta investigativa: l’unitarietà del sodalizio ‘ndranghetista.
L’Onorata Società calabrese non sarebbe l’insieme di tante cosche rivali, in perenne lotta fra loro (come si era sempre ipotizzato), ma un’organizzazione verticistica retta da una cupola, denominata Crimine o Provincia (al pari di Cosa Nostra).
Se la ‘ndrangheta è una (con un vertice in Calabria e tante basi sparpagliate sulla penisola, se non nel mondo intero), aprire un locale di ‘ndrangheta al Nord non può essere considerato un fatto “neutro”, perché significa consentire l’espansione di un’organizzazione che – per fatto notorio e, dal 2010, per legge – è mafiosa, ovvero si serve del tipico metodo per conseguire una pluralità di finalità (lecite ed illecite).
L’elemento organizzativo risulta dunque centrale in questa nuova prospettiva: una volta dimostrata l’esistenza di un sodalizio che riproduce gradi, rituali, stilemi ‘ndranghetisti, è in costante contatto con la casa-madre e risulta proiettato verso determinati orizzonti, il reato dovrebbe considerarsi provato. La fama criminale accumulata, nel corso dei decenni, dalla consorteria sarebbe sufficiente a dotare ogni singola cellula di quella forza di intimidazione richiesta dalla norma (che si trasmette in modo automatico, ereditario, essendo frutto di un “patrimonio genetico”), anche senza una manifestazione concreta. Spetterebbe poi ai singoli affiliati, uniti nel locale, decidere come e quando servirsene, a seconda delle necessità.
Del resto, negli ultimi anni si è osservato, un po’ ovunque al Nord, che i membri delle organizzazioni mafiose ricorrono sempre meno alla violenza tradizionale (per non attirare l’attenzione degli inquirenti) e sempre più a meccanismi di tipo corruttivo-collusivo, prediligendo un basso profilo (cd. mimetismo mafioso).
Ad avviso del pm, di conseguenza, sarebbe sbagliato (e assurdo!) pretendere a Genova un livello di assoggettamento ed omertà “tradizionali”. Ciò che conta è il legame ermetico tra gli affiliati, il vincolo associativo che costituisce il presupposto indefettibile per la commissione (futura) di reati (nel caso di Maglio 3, il tentato condizionamento delle elezione regionali del 2010 è innegabile; ma va ricordato, a fortiori, che i reati associativi sono reati di pericolo, e non per forza di danno/evento).
La Corte d’Appello genovese è, però, di tutt’altro avviso: “Questa opinione (sostenuta anche dalla Cassazione nel processo Albachiara, nonché in alcuni procedimenti de liberate, n.d.r.)appare una parziale deroga al dettato normativo, al quale sottrae un elemento costitutivo del reato: la concreta manifestazione della capacità intimidatrice del vincolo associativo realizzata attraverso l’assoggettamento e l’omertà della popolazione come conseguenza della stessa intimidazione”.
Nella sentenza sui “piemontesi” c’è stata, pertanto, una “forzatura”, una presunzione di sussistenza di certe caratteristiche in capo ad un’articolazione territoriale di una “mafia storica”, operazione inammissibile poiché “il nostro sistema penale non conosce la presunzione dei fatti costitutivi dei reati”.
Non si deve confondere, a questo proposito, un generico ed astratto timore della popolazione (derivante dalla notorietà delle caratteristiche mafiose) con la specifica omertà, ovvero “il condizionamento del mondo degli onesti”.
La Corte d’Appello rimarca: “Non si fanno processi alla mafia, ma a uomini accusati di appartenervi, onde diventa necessario che l’ambiente identifichi in persone determinate i portatori di quella sinistra aura criminale”.
Verissimo, la responsabilità penale è personale. Tuttavia, per onor di cronaca, sembra doveroso riportare le parole con cui si apre la ponderosa ordinanza-sentenza istruttoria del maxi processo di Palermo, l’atto di accusa alla Cupola di Cosa Nostra, confezionato dal pool antimafia: «Questo è il processo all’organizzazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e la intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore».
Altri tempi, altri fatti, altri imputati.
Viene ridisegnato anche il concetto di “mafia silente”, che non può sostanziarsi in un “un sodalizio autoreferenziale”, bensì rappresenta “una mafia che non ha bisogno di alzare la voce perché può contare su una fama terribile”. Perché ciò avvenga, è necessario che sia percepita come tale non in modo generico, ma attraverso i suoi uomini.
Con riferimento alla tesi della gemmazione, su scala locale, della casa madre, la Corte avvalora ancora una volta le tesi del G.U.P. Carpanini, che richiedeva una “qualche attività” sul nuovo territorio, sia pure dipendente da indicazioni/direttive impartite altrove. In sostanza occorre dimostrare il perseguimento di almeno una delle finalità, o comunque la manifestazione del metodo mafioso (si fa l’esempio della protezione di latitanti, della custodia delle armi…).
E dunque, sintetizzando: “La semplice organizzazione in altro luogo di un gruppo gerarchicamente dipendente dall’associazione originaria non si distingue in nulla da quest’ultima e al più realizza il concorso in quest’ultima e nelle sue attività: certo essa non realizza una nuova e diversa associazione criminosa […] L’associazione mafiosa può esistere indipendentemente dalla commissione dei singoli reati fine, ma non può prescindere da una qualche esternazione o manifestazione del metodo mafioso, sia pure minima, non eclatante né minacciosa, anche con sollecitazioni implicite, ma almeno idonea a rappresentare nell’ambiente la propria esistenza e a rendere manifesti i propri uomini; la nuova articolazione locale di una mafia storica non “eredita” il metodo mafioso, ma lo deve esternare nel nuovo ambiente, altrimenti si limita a fiancheggiare l’associazione originaria, nella partecipazione alla quale ultima si riduce l’attività degli affiliati al gruppo delocalizzato”.
La seconda parte della sentenza si sofferma, poi, su alcune delle conversazioni più significative che sono state intercettate. Ma anche qui, viene subito messo in evidenza come manchi totalmente il racconto dei rapporti tra i “calabresi” e la popolazione ligure. Si tratta di conversazioni private, da cui non emergono dettagli rilevanti per dimostrare l’esistenza di un clima di intimidazione diffuso.
Sulla nota intercettazione ambientale del 14 agosto 2009, all’agrumeto di Rosarno, la Corte “gela” il pm, denotando il carattere assolutamente autoreferenziale della conversazione. Nulla si evincerebbe in riferimento ai dieci imputati e tanto meno al loro esercizio del metodo mafioso in Liguria.
Questo concetto viene ripetuto come un mantra dalla Corte d’Appello, in relazione ad ogni dialogo riportato dall’accusa.
Quand’anche si parla di ‘ndrangheta (e talora le conversazioni sono davvero esplicite), non c’è alcun indizio di concreto esercizio del metodo mafioso in Liguria.
Questa è la tesi di fondo del Collegio, che sembra condividere la distinzione, elaborata in primo grado, tra l’essere ‘ndranghetista (a livello folkloristico-culturale) e il fare lo ‘ndranghetista (a livello criminale).
Nulla di utile emergerebbe, altresì, dalle ambientali collocate nell’ortofrutta di Gangemi, con riferimento alla solita forza intimidatrice: non si discute che ci sia una qualche forma di organizzazione, composta da calabresi, i quali si definiscono ‘ndranghetisti; la Corte denota, però, la totale assenza di una fama criminale tipicamente mafiosa in Liguria, la sussistenza di episodi concreti di impiego del metodo di cui all’art. 416 bis, co. 3, c.p.
Anche in relazione alle elezioni regionali del 2010, il discorso non cambia: è vero che gli imputati erano molto attivi (Gangemi sosteneva Praticò, Belcastro Fortunella Moio, Garcea altri candidati ancora; a Imperia, invece erano tutti per Saso), ma il condizionamento del voto assume rilievo penale, ai fini dell’applicazione del delitto di associazione mafiosa, solo se sorretto dal solito metodo mafioso!
“Il primo giudice”, afferma la Corte, “facendo corretta applicazione di questi principi, ha escluso la sussistenza di un’associazione mafiosa ligure perché il condizionamento non era esercitato con metodo mafioso e non perché sottovalutasse la riconducibilità all’associazione mafiosa calabrese delle singole persone coinvolte nella vicenda”.
Persino quando Gangemi dice testualmente di aver “acchiappato la pistola”, per la Corte d’Appelo trattasi di “guapperia” (testuale), “una vanteria da guappo, non una condotta da capomafia”.
A nulla, ancora, rileva la visita di Marcianò (condannato a 16 anni per associazione mafiosa nel processo La Svolta, pena leggermente ridotta in secondo grado) a Gangemi (il quale, come sembra dimenticarsi la Corte, è stato condannato a 19 anni e sei mesi nel processo “Crimine”, pena già confermata in Appello!).
A nulla rilevano le conversazioni tra i due (e Vincenzo Moio) per risolvere il problema della candidatura di Fortunella Moio nel collegio di Genova (dove c’era già Praticò, il candidato forte di Gangemi). Si tratta di legittimo sostegno della comunità calabrese ad un proprio esponente.
Sorprendente è, ancora, la nonchalance con cui i giudici riconoscono che Garcea e Gangemi si erano recati a “una riunione malavitosa per conferire cariche agli affiliati”, salvo poi non attribuire alcuna rilevanza alla circostanza.
Morale della favola: in tutte le conversazioni si fa esplicito riferimento al lessico, alle usanze e alle dinamiche ‘ndranghetiste. Ma non siamo al cospetto di un’associazione mafiosa, perché non è evidente il clima di intimidazione diffuso esercitato sulla collettività.
Ci viene consegnata una lettura folkloristica del fenomeno, insomma, nulla di diverso da un circolo culturale, i cui membri si sostengono a vicenda per le esigenze più varie.
Il fatto che schiere di politici fossero pronte a garantire favori a queste persone non è voto di scambio (in senso atecnico), ma mero clientelismo, raccomandazione, pratiche oltre modo diffuse nella nostra società.
Il risultato elettorale, in ultima analisi, è piuttosto deludente, a riprova della scarsa capacità del condizionamento della popolazione.
Vengono inoltre svilite le pur numerose riunioni documentate tra i presunti affiliati.
La riunione di Bordighera del 17 gennaio 2010? “Qualcosa di losco”, dal momento che dalle intercettazioni si evincono le cautele adottate per evitare pedinamenti, ma “non sappiamo di cosa si è parlato”.
La riunione del 28 febbraio 2010, nel Basso Piemonte, finalizzata a conferire le doti a Caridi e Maiolo? Inequivocabile il contesto mafioso, ma anche qui non c’è alcuna proiezione esterna.
Addirittura l’imputato Garcea, osserva la Corte, lamenta l’inattività del sodalizio, rimpiangendo i tempi in cui camminava con due pistole, mentre ora gira con due telefoni.
L’incontro di Siderno (RC) tra Belcastro e Commisso, avvenuto il 4 marzo 2010? “Dimostra certo l’esistenza a Genova di persone e strutture legate alla ‘ndrangheta calabrese”, ma “non dice se e come operano, onde non dimostra la sussistenza del metodo mafioso nella nostra terra” .
Il meeting di Lavagna del 16 marzo? Non c’è conoscenza del contenuto della riunione, apprendiamo unicamente il tenore della conversazione avvenuta in auto, lungo il viaggio di ritorno, tra Gangemi e Condidorio: soliti riferimenti inequivocabili alla ‘ndrangheta, solita irrilevanza penale.
Infine, il summit di Bosco Marengo 30 maggio 2010? “Questioni organizzative interne”.
Anche la condanna inflitta a Garcea per usura aggravata dal metodo mafioso (art. 7, d.l. 152/1991) viene ridimensionata, anche perché tale circostanza aggravante è stata esclusa dalla Cassazione nel 2013 e, comunque, trattasi di una “vicenda personale”.
In sostanza, questi non sarebbero veri ‘ndranghetisti, ma “inutili parolai” (scrivono i Giudici). In una conversazione si dice: “parliamo, parliamo, ma non facciamo niente…Siamo diventate quattro femmine pettegole dal primo all’ultimo”.
Per concludere, il Collegio lamenta la “qualità assolutamente scadente del materiale accusatorio”: si assiste unicamente a convenevoli tra persone presenti, mentre si parla male degli assenti; è vero che si dice ogni tanto la parola ‘ndrangheta e che vengono pronunciate espressioni gergali tipiche della ‘ndrangheta, ma sempre nell’ambito di “conversazioni di cui non si coglie il senso unitario”; agli atti c’è tanto materiale su soggetti estranei al presente giudizio (Gangemi, Condidorio, Zangrà), poco o nulla circa i 10 imputati.
E la Corte arriva persino a non confutare esplicitamente la sentenza Albachiara, sottolineando l’assetto diverso del gruppo ligure, che non presenterebbe affatto i requisiti che caratterizzano il consesso “piemontese”…Così si esprimeva la Cassazione sul locale di Bosco Marengo (AL): “il reato di cui all’art. 416 bis è configurabile – con riferimento ad una nuova articolazione periferica (cd. locale) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza – anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio”.
Conclude, così, la Corte d’Appello, in modo estremamente severo:
“anche accogliendo la tesi interpretativa prospettata dal pm e dal pg, l’accusa sarebbe lacunosa e insufficiente, ma ancora più infondata essa appare nella prospettiva interpretativa accolta da questa Corte, secondo cui anche l’articolazione locale della mafia storica deve manifestare il metodo mafioso […] Le indagini hanno rivelato un mondo totalmente autoreferenziale, dove si disquisisce in modo causidico delle regole e si rimpiange il passato”.
Con una sottolineatura finale: “l’eventuale concorso degli odierni imputati nell’associazione madre costituisce un fatto nuovo e diverso, mai contestato, neppure implicitamente, nel presente giudizio e comunque qui non dimostrato, il che esclude una declaratoria di incompetenza”.
Come a dire: se gli stessi soggetti fossero stati processati in Calabria, come membri dell’associazione madre (cosa accaduta a Belcastro e Gangemi, per esempio), l’esito sarebbe stato – forse – diverso.
Amara conclusione di un’inchiesta nata male (si ricordi la fuga di notizie che costrinse il pm a chiudere in anticipo l’indagine) e finita peggio.
Sempre che la Cassazione non ribalti il verdetto consolidatosi in Appello, rimettendo tutto in discussione; magari, attraverso una pronuncia a Sezioni Unite, con cui finalmente possa essere chiarita l’annosa questione della prova del metodo mafioso.