In carcere, la scorza da irriducibili si è attenuata fino a farsi fina, troppo sottile per resistere per sempre, levigata da pensieri pesanti e prospettive più lievi. Hanno varcato quella soglia e sono diventati collaboratori di giustizia, chiavi di volta per raccontare un mondo criminale che da decenni ha fatto tutt’uno Milano con la Sicilia e con la Calabria, testimoni di un Nord che tanti – classe politica, pezzi d’informazione – s’immaginavano a tenuta stagna e che invece è diventato terra di conquista, connubi e complicità per il crimine che risaliva lo Stivale. Quei due, diversi per storia ma uniti nel destino, sono uomini diventati fantasmi, non più per scappare dalla polizia, ma per scampare alla vendetta, perché hanno scelto di rivelare fatti, trame, nomi. E quei due, Angelo Epaminonda e Saverio Morabito, ancora oggi hanno qualcosa da raccontare.
Storie sbiadite riaffiorano e s’inseriscono come nuovi tasselli in un altro mosaico antico e irrisolto, quello dell’omicidio di Bruno Caccia, il procuratore di Torino assassinato dalla ’ndrangheta un maledetto 26 giugno del 1983, magistrato che ha pagato con la vita l’intuizione di contrastare i crescenti interessi della mafia calabrese in Piemonte quando quasi tutti chiudevano gli occhi. Il lungo cammino verso la verità passa da una nuova tappa, il processo incardinato in questi mesi davanti al tribunale di Milano contro Rocco Schirripa, 63enne nato a Gioiosa Ionica e da una vita insediatosi nel Torinese, panettiere per professione e criminale per fedina penale, indicato dalla Dda milanese come l’esecutore materiale dell’omicidio del magistrato (il mandante, Domenico Belfiore, è stato condannato all’ergastolo negli anni Novanta). Nelle udienze che con cadenza settimanale scavano in una ferita ancora aperta, ci sarà spazio anche per i racconti di Epaminonda e Morabito, ammessi come testi dal collegio presieduto dal giudice Ilio Mannucci Pacini.
Il «Tebano». Bische, droga, omicidi
Dall’Etna alla Brianza, a Cesano Boscone, arriva da bambino, fuggendo dalla Sicilia perché il padre s’è giocato tutto a carte. Angelo Epaminonda, detto il «Tebano», oggi è un 71enne che ha alle spalle tante vite: quella da bimbo nella Sicilia difficile, quella da ragazzo svogliato nella Lombardia produttiva e mondana, soprattutto quella da criminale. Inizia con la droga, un piccolo giro che si allarga sempre più, e arriva alle bische. Conosce Francis Turatello, colui che comandava sull’azzardo all’ombra della Madonnina, figura che intreccia la vecchia mala milanese con i clan della Sicilia, e ne diventa «collaboratore». Sempre più stretto: da biscazziere passa a braccio destro, poi ne prende il posto a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. Con Epaminonda c’è anche Jimmy Miano, siciliano trapiantato nel capoluogo lombardo; guida la costola meneghina dei «cursoti», clan spietato nato a Catania.
In quel periodo, Milano si lastrica di sangue. Alla guerra per le bische s’aggiunge quella per la droga («Era più rischiosa, ma si dimostrò subito più proficua», ha raccontato Epaminonda nella sua autobiografia). Il 3 novembre 1979, in via Moncucco, al ristorante «Le streghe», si contano otto cadaveri, il gruppo di fuoco è legato al «Tebano». Perché Epaminonda ha un suo «esercito», quello degli «indiani»: «Soldi, amicizie, potere. Ormai ero il padrone della città. Contavo più del sindaco. La cocaina mi aveva spalancato tutte le porte. Gli Indiani la vendevano, io incassavo», ha confessato in Io, il Tebano, il libro scritto dallo stesso boss nel 1991 con i giornalisti Antonio Carlucci e Gian Paolo Rossetti.
Da Milano a Torino
La corsa criminale di Angelo Epaminonda termina il 30 settembre 1984. A Torino, ecco che si torna a quella città, i poliziotti della Squadra mobile bussano al suo rifugio. Conoscono la «parola d’ordine»: «Sugnu Turinella», bluffa un investigatore, fingendosi Salvatore Parisi, il capo del «cursoti» a Torino – organizzazione che ha insanguinato anche il capoluogo piemontese per anni, e nei cui confronti sorgerà un maxiprocesso, raccontato anche dal magistrato Elvio Fassone in Fine pena ora – e personaggio in strettissimo contatto col «Tebano».
Epaminonda abbocca e finisce in manette, ma sceglie di parlare – come fa anche Parisi – e diventa collaboratore di giustizia: riempie duemila pagine di verbali di fronte al pm Francesco Di Maggio, fa istruire un processo che si rivela pietra miliare per mettere un punto fermo su quasi due decenni di malavita. In primo grado la condanna è per 416-bis, in Appello l’accusa di mafia cade, ma la sostanza è chiara: quasi un centinaio di condannati, decine di ergastoli a nomi che spaziano dalla Sicilia a Milano, 29 anni per il «Tebano», autoaccusatosi di diciassette omicidi – decine, in totale, le esecuzioni ricostruite in aula – e ritenuto collaboratore attendibile. Un’attendibilità chiamata ancora una volta in causa: libero dal 2007, con una nuova identità, Epaminonda può forse contribuire a far luce sull’assassinio di Bruno Caccia.