di Francesco di Donna*

Lo smaltimento illecito dei rifiuti si attesta tra i settori più pericolosi, remunerativi e multiformi nel più ampio fenomeno delle Ecomafie. È un reato estremamente versatile che si può esprimere dalla discarica abusiva (sia essa una cava, una grotta, un bosco o un fondale marino) alla combustione dei rifiuti nelle periferie, dalla miscelazione di questi nelle fondamenta degli edifici in costruzione alla loro esportazione in paesi in via di sviluppo. La contraffazione dei documenti che accompagnano i rifiuti, classificandoli come meno inquinanti e meno pericolosi di quanto siano realmente, è un’altra declinazione del fenomeno: i rifiuti “declassati” vengono quindi trattati e smaltiti con procedure non consone, meno costose e più inquinanti. La criminalità ambientale, generalmente intesa, è infatti un reato economico, in virtù del fine del profitto che ne orienta la condotta, e tipico dei colletti bianchi, che talvolta cercano o accettano la partnership di un altro soggetto: la criminalità organizzata, mediante cui è possibile contare su una rete di contatti più ampia grazie alle sue risorse principali, e cioè il vincolo associativo dei suoi membri e il controllo capillare del territorio. Ne scaturisce un vero e proprio sistema che Legambiente titola “Rifiuti SPA”, per sottolinearne la vocazione imprenditoriale. Un sistema in grado di sfruttare sia le tante lacune normative sia le complicità di una parte di imprese private, amministratori locali e organi di controllo corrotti; che considera le peculiarità del territorio (per esempio la copiosa presenza di cave nella regione Piemonte); che si serve di una solida struttura di base per assicurare tutte le fasi della “gestione rifiuti”. Una tale complessità procedurale necessita dunque di importanti nodi sul territorio, siano questi luoghi o persone: la presenza di questo reato ambientale su un territorio specifico può implicare l’ipotesi di radicamento di un gruppo criminale di stampo mafioso?

Il caso piemontese

Sotto questo profilo, il Piemonte offre spunti interessanti, poiché il crimine organizzato di stampo mafioso, più di una volta, ha mostrato interesse per la gestione e per lo smaltimento illecito dei rifiuti in questa nuova regione di insediamento, implementando il “modus operandi” man mano che la variabile “radicamento” si sviluppava.
Caratteristica peculiare della geografia piemontese è la presenza di cave: perfetto collante tra movimento terra e l’illecito dello smaltimento. Dall’attività estrattiva nelle cave, infatti, si ottiene un composto di sabbia e ghiaia, materiali di scarto in generale, chiamato “mistone” dagli esperti, che serve alla produzione del cemento. La cava dunque viene svuotata del suo materiale, generando così ampie voragini, nella terra e nella roccia, che devono poi essere bonificate, o meglio, riempite: un duplice business, che non è passato inosservato. Ed è proprio il meccanismo del riempimento illecito che si è svelato dietro l’inchiesta del 1994 sulla cava dell’Orco, sita nell’hinterland torinese e sfruttata da un gruppo mafioso per smaltire rifiuti tossici, altamente inquinanti. Assoggettando i proprietari della cava e potendo contare su un’efficiente rete dedita al trasporto, fusti di rifiuti tossici provenienti da diverse zone (tra cui scorie di Cesio 137, riconducibili al disastro di Chernobyl) sono stati buttati nel laghetto artificiale atto al riempimento del sito estrattivo. L’inchiesta ha condotto ad un ampio network criminale con rami transnazionali e ha portato all’arresto di diversi soggetti ritenuti affiliati a Cosa Nostra. Il gruppo criminale, capace di dirottare i rifiuti in diverse zone d’Italia, non è risultato radicato nella zona piemontese. Una realtà più intricata è quella che viene dimostrata dalla recente inchiesta “San Michele”. Al centro dell’indagine finisce la ‘ndrina distaccata di San Mauro Marchesato, operante da anni a Sant’Antonino di Susa, ancora nell’hinterland torinese, in cui tutti gli interessi convergono nel mantenimento della cava al confine tra i comuni di Sant’Ambrogio e Chiusa San Michele, reso possibile dall’assoggettamento dei proprietari, minacciati in diverse occasioni. Le intenzioni degli indagati vertono sull’utilizzo della cava come deposito di rifiuti speciali per le ditte amiche che avrebbero lavorato nella TAV. Il radicamento della cosca ‘ndranghetista è il valore aggiunto, che permette il perpetuarsi di condotte illecite e che consolida la forza dell’organizzazione criminale nel contesto economico e sociale. Gli appalti vengono affidati, negli anni, alle stesse ditte, o a quelle facenti capo alle stesse persone o alle stesse cosche, muovendo direttamente persone legate all’organizzazione mafiosa per minacciare, intimidire, scoraggiare competitor o altri soggetti implicati. Il ciclo produttivo dei rifiuti qui considerato fa capo allo stesso territorio e a ditte legate agli stessi soggetti, quindi è più sicuro: controllo del territorio, capacità intimidatoria e corruttiva, ricerca continua di profitto, risorse e potere, offerta di servizi illegali sono i punti di forza con cui infiltrarsi e sporcare la “white economy”La presenza di un’organizzazione criminale di stampo mafioso è quindi direttamente collegabile a tutta una serie di reati (ed ecoreati) che sono tipici del modus operandi considerato.

Il percorso contrario, quindi ipotizzare la presenza di un’organizzazione mafiosa su un territorio partendo da un’attività eco mafiosa rilevata è più difficile, perché necessita di altri fattori concomitanti, ma certamente rappresenta un allarme che deve far mobilitare in senso preventivo e coercitivo tutte le forze istituzionali.
Lo studio del fenomeno delle ecomafie nelle regioni a non tradizionale presenza mafiosa deve quindi accompagnarsi allo studio delle variabili infiltrazione e radicamento della criminalità organizzata nei nuovi territori: la ricerca incrociata può condurre a risultati accademici rilevanti e di stimolo al contrasto.

*Per approfondimenti sulla situazione in provincia di Novara, vi rimandiamo alla tesi di laurea di Francesco.

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