di Alessandra Venezia

IX e X udienza: due giorni, nove testimoni e uno scenario criminale sempre più ampio e intricato.

 Nelle mattinate del 30 e 31 marzo, presso la Corte d’Assise di Milano, hanno avuto luogo la nona e la decima udienza del Processo Caccia bis. Nel corso delle due giornate sono stati sentiti nove testimoni, alcuni presenti fisicamente in aula, altri in videoconferenza, quasi tutti accompagnati da un legale di fiducia. L’obiettivo generale delle parti sembra essere stato quello di indagare ulteriormente all’interno della rete criminale torinese, attiva a partire dagli anni ’80 fino a tempi più recenti, così da individuare i rapporti familiari e lavorativi connessi all’omicidio del procuratore Bruno Caccia.

Ad aprire le danze è Angelo Finocchiaro, catanese condannato all’ergastolo, che dichiara di conoscere gli altri catanesi (precedentemente sentiti in aula) ma non i calabresi. Alle domande sul giudice Caccia e sull’imputato Rocco Schirripa si indispone: “Non avevo motivi di risentimento nei confronti del giudice, all’epoca non avevo nemmeno mai subito processi a Torino. Questo Schirripa non lo conosco. Non so neanche perché mi avete chiamato a testimoniare”.

Maggiori informazioni vengono invece fornite dal collaboratore di giustizia Giulio Tirletti, che dall’accento sembra avere origini romane. Già in passato aveva ammesso le proprie responsabilità nel corso dei processi a suo carico e si dimostra tuttora collaborativo. Dichiara di conoscere i calabresi, sebbene l’unico con cui abbia mai avuto rapporti criminali sia stato Salvatore Belfiore (fratello del più noto boss Domenico): “Io ho iniziato a delinquere dopo il fallimento della mia impresa. Il salto di qualità l’ho fatto entrando nel gruppo di Sasà Belfiore”. Tuttavia sostiene di non aver mai avuto notizie sull’omicidio Caccia, se non dai giornali: “Fra di noi non si parla di queste cose neppure quando avvengono, figuriamoci se sono lontane nel tempo!”. Infine fornisce un particolare interessante riguardante un episodio in cui qualcuno gli disse di star tenendo d’occhio “quello col cagnolino”, senza però fargli il nome del procuratore. Bruno Caccia fu ucciso quel 26 giugno 1983 proprio mentre era a passeggio con il proprio cane.

Direzione differente ha poi la testimonianza di Francesco Canonico -di origine pugliese- che pur non conoscendo nessun esponente criminale, né fra i calabresi né fra i catanesi (ad eccezione di Francesco D’Onofrio, con cui lavorava in FIAT), fornisce un importante contributo alla ricostruzione dei rapporti fra mafia e terrorismo. Canonico infatti apparteneva all’associazione terrorista “Prima Linea”.

Aspetti ancora diversi emergono dalla testimonianza di Vincenzo Mecca, che esordisce così: “Ho sempre commesso reati, ma solo per ottenere soldi per me, mai a fini politici. Ho fatto una scelta di vita e l’ho pagata”. Dichiara di non aver mai partecipato ad associazioni di stampo mafioso e di aver conosciuto solo Vincenzo Pavia, suo amico d’infanzia. Anche il nome di Schirripa gli è estraneo, è a conoscenza della vicenda dell’omicidio Caccia e dei successivi processi solo grazie ai giornali. Conclude la testimonianza con un’altra dichiarazione folkloristica: “Al mondo tutti si arricchiscono, non capisco perché non debba farlo anche io”.

Di maggior rilevanza è poi la testimonianza del boss ‘ndranghetista Mario Ursini, braccio destro di Domenico Belfiore. Ursini parla in videoconferenza dalla località segreta dove si trova attualmente in custodia cautelare per accusa di associazione mafiosa, sebbene ci tenga subito a precisare di non essere affatto un mafioso. Nel processo del 1989 sull’omicidio Caccia fu imputato e poi prosciolto. A differenza dei precedenti testimoni Ursini è meno collaborativo e spesso risponde in modo sgarbato alle domande delle parti. Dichiara di conoscere tutti i calabresi e i catanesi che lo hanno accusato per l’omicidio del procuratore (Saia, Giuffrida, Tornatore, i fratelli Miano) e anche Rocco Schirripa: “Sì lo conosco, siamo originari dello stesso paese giù in Calabria. Sua figlia stava con mio nipote (Rocco Vincenzo Ursini, scomparso. Nda). Capitava di vederci a volte, sia in Calabria che a Torino”. Rispetto all’omicidio Caccia, invece, sostiene di non essere mai venuto a conoscenza del progetto di ucciderlo e si giustifica dicendo che al tempo era in carcere. Mentre alla domanda dell’avv. Anetrini (difesa dell’imputato) su eventuali suoi rapporti con alcuni magistrati torinesi perde la calma: “Avvocato, ma stiamo scherzando? Ho solo commesso degli errori da giovane!”. Infine, davanti all’insistenza dell’avvocato della parte civile Fabio Repici, volta ad ottenere maggiori chiarimenti rispetto al suo rapporto con l’imputato, Ursini appare stanco e confuso, fornisce risposte vaghe, è nervoso e accusa la Corte e gli avvocati di fraintenderlo.

È poi il turno di Bruno Raschillà e di Aldo Cosimo Crea, entrambi calabresi ed entrambi richiesti dall’avv. Repici. Mentre il primo appare piuttosto spavaldo (arriva addirittura a dire di rispettare molto la Costituzione) e poco collaborativo, il secondo risponde a tutte le domande. Nessuno dei due conosce bene i Belfiore né ha mai avuto notizie sull’omicidio Caccia. Il pm e l’avv. Anetrini non hanno domande e ad intervenire per alcune precisazioni è allora il giudice Mannucci.

Il penultimo testimone è Renato Macrì, nipote di Mario Ursini, in libertà da quasi dieci anni (con una parentesi carceraria di ventidue mesi tra il 2011 e il 2012). In abiti eleganti si dimostra piuttosto sicuro di sé e risponde alle domande a denti stretti. Le parti si concentrano sul suo rapporto con lo zio e con il cugino fidanzato con la figlia di Schirripa (lo scomparso Rocco Vincenzo Ursini). Parlando poi di Schirripa si dichiara suo amico: “Con Rocco siamo tuttora amici, veniamo dallo stesso paese. Per me se sei amico di una persona lo rimani per sempre”. Con il proseguire delle domande sempre inerenti al suo rapporto con Schirripa però si innervosisce e inizia a rispondere con continui “Non so” e “Ci incontravamo solo sporadicamente”.

Conclude le due intense giornate la testimonianza di Saverio Agresta, padre del pentito Domenico (sentito nelle precedenti udienze). Agresta dichiara di aver conosciuto Schirripa in carcere, ma di non aver mai saputo nulla dell’omicidio Caccia né dei Belfiore e degli altri del loro clan. Le domande delle parti si incentrano soprattutto sul suo rapporto con il figlio pentito. Agresta racconta allora di come il figlio lo andasse a trovare in carcere da bambino e di come poi smise di farlo da adolescente, quando seguì le sue orme e diventò lui stesso un criminale. Nega poi la sua partecipazione ad associazioni mafiose e anche quella del figlio e, rispetto ad una loro possibile conversazione sull’omicidio Caccia, sempre più nervoso dichiara: “Mi viene da ridere, con tutto il rispetto per il magistrato, ma come potevo parlarne se neanche lo sapevo?”. Infine alla domanda incalzante del pm su come ci si senta ad avere un figlio pentito, si lascia sfuggire, sfinito, un commento amaro: “Male, la si vive male. Non lo posso neanche vedere, non me lo fanno vedere”.

Si chiudono così due lunghe giornate di testimonianze, con uno scenario che pare ancora oscuro e incerto, in attesa della prossima udienza mercoledì 5 aprile alle ore 9.30, sempre presso la Corte d’Assise di Milano.

 

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