solalinde«Oggi il Messico non è altro che una grande fossa comune. Un cimitero di migranti. L’ultima meta di un popolo invisibile». Non usa mezzi termine padre Alejandro Solalinde nel descrivere la sua terra. Racconta di corruzione, criminalità organizzata e migrazione. Lo fa in occasione dell’ultima edizione del Festival dei diritti umani tenutasi a Milano dal 2 al 7 maggio. Durante la sua permanenza italiana sta partecipando a numerosi eventi per presentare il suo ultimo libro, “I narcos mi vogliono morto”, scritto insieme alla giornalista di Avvenire Lucia Capuzzi. Lui che dal 2005 è responsabile di un centro d’accoglienza per migranti a Ixtepec, città nel sud del Paese, e che ha fatto della difesa degli ultimi la sua fede. Lui che i narcos vogliono morto mentre l’Accademia del Nobel di Oslo lo annovera tra i candidati del premio Nobel per la pace 2017.

Racconta della sua terra. Del Messico. Dell’incubo di 20 mila migranti sequestrati ogni anno, 54 al giorno. Gli “indocumentados”. Così sono chiamati i migranti che scappano dalle violenze urbane e civili del Centro America (soprattutto Salvador, Guatemala e Honduras) per inseguire il sogno statunitense. Là, c’è la libertà. Ma per raggiungerla, la rotta obbligata è quella messicana. Qua, invece, ci sono i trafficanti. Per loro il migrante è una preziosa vittima di tratta. Preziosa, certo, perché il commercio di esseri umani vale alla criminalità organizzata in Messico circa 50 milioni di dollari l’anno. La situazione è peggiorata negli ultimi anni. In passato i migranti si servivano di un treno merci, battezzato la “Bestia”, per attraversare il Paese lungo la linea ferroviaria Chiapas-Mayab. Con l’approvazione, però, del programma governativo Plan Frontera Sur, atto ad aumentare i controlli delle autorità governative, il flusso migratorio cambia. Viaggiare in treno non è più sicuro. Troppa polizia federale. Non resta altro, quindi, che affidarsi ai trafficanti locali. Questi, meglio conosciuti con i soprannomi di “polleros” o “coyotes”, si servono di zattere o piccole imbarcazioni per condurre via mare, in cambio di consistenti cifre, i migranti a Oaxaca. Da qui il viaggio prosegue fino a Veracruz per poi raggiungere il confine con il Texas.

C’è chi, però, il confine con gli Stati Uniti non lo raggiungerà mai. La maggior parte dei migranti vengono rinchiusi in edifici simili a prigioni. Diventano vittime di violenza sessuale, schiavitù, mutilazioni e abusi da parte dei cartelli messicani, primi tra tutti i Los Zetas. «In Messico tutto questo è possibile perché governa il regime della Narcocleptocrazia. Nella classe politica sono pochi gli onesti. Vince la corruzione sul buon senso. Le alte cariche dello Stato si interessano solo di capitali. Degli investimenti macroeconomici con gli Stati Uniti. Tutto mentre nel Paese si sta vivendo la crisi dei diritti umani. E i primi a pagarne le conseguenze sono proprio i migranti».

Il Messico non è l’Italia. E l’Italia non è il Messico. Il confronto è difficile. Chiaro. Ma una cosa è certa: i diritti soccombono sempre quando ci sono i violenti. Che sia Europa, Asia, America o Africa. «Eppure a me il Messico ricorda la Sicilia degli anni ’80 -ha precisato Francesco Greco, procuratore capo di Milano, anche lui ospite del Festival dei diritti umani-. Se oggi l’80% del territorio messicano è controllato dai narcos, in Sicilia allora accadde qualcosa di analogo con la mafia. Basti pensare che in quegli anni eravamo il Paese con più magistrati morti al mondo, secondi solo alla Colombia. Oggi, non vi è dubbio che il fenomeno migratorio è un problema di tutti i Paesi. Per i narcos, così come per le altre organizzazioni criminali, l’importante è annullare l’identità, e, quindi, la storia delle loro vittime. Tuttavia, l’immigrazione presente nel nostro Paese è diversa da quella messicana. Prima di tutto, il migrante in Italia non parla la nostra stessa lingua. Rimane catalogato, quindi, tra i “diversi”. Escluso dalla società. C’è di positivo però che nel nostro Paese l’organo istituzionale a cui spetta la tutela dei diritti è la magistratura, l’unica la mondo ad avere autonomia ed indipendenza dalle forze politiche».

Già. Per molte persone i migranti fanno paura. Forse per la loro forza d’animo. Forse per il loro coraggio. «Ora sono poveri. Ma dalla loro hanno l’esperienza del viaggio. E poi, se ci pensiamo bene il futuro di tutti non è “migrante”? Ogni essere umano non è già in transito?», conclude padre Solalinde.

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