Il 18 maggio 2017 la Seconda Sezione Penale della Suprema Corte ha depositato le motivazioni della sentenza con cui, il 4 aprile scorso, ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Genova nei confronti dei dieci imputati del procedimento denominato “Maglio 3“. Come avevamo già segnalato, ciò comporterà un nuovo processo per i soggetti accusati di far parte della ‘ndrangheta ligure, poiché – secondo la Cassazione – di mafia si tratta.

La Corte d’appello aveva, invece, aderito alla tesi sostenuta dal GUP Carpanini, che aveva – anche in primo grado –  assolto tutti gli imputati per la mancata prova dell’estrinsecazione del metodo mafioso. I giudici di legittimità sono stati di diverso avviso e, con un provvedimento estremamente significativo, dettano i (diversi) principi di diritto cui dovrà attenersi il Giudice del rinvio. Eccone un’accurata illustrazione.

Il consigliere estensore, dott.ssa Anna Maria De Santis, ripercorre anzitutto l’iter processuale. Il giudice di primo grado aveva assolto gli imputati perché, pur riconoscendo che il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso possa sussistere anche in assenza di reati fine, questo non può prescindere dall’intimidazione. Dunque, sebbene emergesse indiscutibilmente che gli imputati erano legati alla ‘ndrangheta, si incontravano e si riunivano nel rispetto delle tradizioni ‘ndranghetiste, partecipavano al conferimento di cariche proprie del sodalizio e ne seguivano i rituali, “essere ‘ndranghetista, soprattutto al di fuori della Calabria, non vuol dire necessariamente, in assenza di concrete dimostrazioni in fatto, fare l’ndranghetista”.

La Corte d’Appello aveva confermato la decisione di primo grado: “le indagini hanno rivelato un mondo totalmente autoreferenziale, dove si disquisisce in modo causidico delle regole e si rimpiange il passato”.

La Suprema Corte, per risolvere il caso concreto, analizza la sentenza, passata in giudicato, del processo “Albachiara“, filone piemontese della stessa indagine “Maglio 3”, la quale ha ritenuto che per le nuove articolazioni territoriali di organizzazioni storiche quali la ‘ndrangheta, se sono legate alla stessa da un rapporto organico e ne condividono il metodo mafioso, non si necessita di un’autonoma esternazione del metodo mafioso stesso.

La Corte territoriale genovese riteneva invece che un’articolazione territoriale di una mafia storica non fosse sufficiente di per sé a giustificare la notorietà dell’associazione madre.

Il Sostituto Procuratore Generale, nel suo ricorso contro la sentenza assolutoria, osserva come non si possa considerare il solo contesto territoriale in cui è insediato il singolo locale come se questo fosse del tutto indipendente, poiché gli imputati, facendo parte della ‘ndrangheta calabrese, sfruttano o comunque si avvalgono del prestigio criminale dell’associazione e dell’alone di diffusa e permanente intimidazione che la stessa è riuscita a creare. Sostiene inoltre che la Corte d’Appello genovese abbia svilito la portata probatoria degli elementi acquisiti e abbia disatteso i principi in materia di prova.

Analisi degli orientamenti giurisprudenziali.

La Corte d’appello aveva confermato il verdetto di primo grado facendo riferimento all’indirizzo giurisprudenziale (espresso dal Primo Presidente della Corte di Cassazione nel 2015) in merito alla mafia silente, per cui si richiede “una capacità di intimidazione non solo potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti”.

Tuttavia la Suprema Corte rileva come, in realtà, vi sia una notevole varietà di sentenze: alcune richiedono “la concreta capacità di intimidazione”, soprattutto in zone che non hanno vissuto storicamente il fenomeno che, dunque, deve essere debitamente contestualizzato, ricostruito e dimostrato in concreto; altre sostengono che, essendo l’associazione di tipo mafioso un reato di pericolo, è sufficiente che il gruppo criminale sia potenzialmente capace di esercitare la capacità intimidatoria, non essendo necessari nel concreto atti intimidatori; altre ancora sostengono che non occorra verificare che ogni membro sia parte attiva dell’utilizzo del metodo intimidatorio, poiché è sufficiente che esso sia parte del sodalizio, condividendone l’organizzazione, l’assetto e le finalità ed adoperandosi per l’esistenza e lo sviluppo dell’associazione.

La Corte di legittimità ritiene dunque che richiedere, ancora oggi, la prova di un’effettiva estrinsecazione del metodo mafioso, potrebbe portare a ritenere configurata la mafia solo all’interno delle realtà territoriali storicamente colpite, ignorando così la mutazione genetica che hanno oggi le organizzazioni in questione, che tendono a vivere mimetizzandosi ed infiltrandosi nel tessuto economico e negli appalti in modo massiccio e quasi irreversibile.

Bisognerebbe definire la mafia silente non come associazione criminale aliena al metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso ma come sodalizio che adopera tale metodo in modo silente, senza ricorrere a forme eclatanti, come omicidi ed attentati, ma “avvalendosi di quella forma di intimidazione per certi aspetti ancora più temibile che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere”.

La corretta valutazione delle prove.

Alla luce delle oscillazioni giurisprudenziali, ciò che rileva è la corretta valutazione delle evidenze probatorie secondo logica. Infatti anche le sentenze che richiedono un concreto riscontro esterno della forza intimidatrice, lo ritengono dimostrato dal fatto che l’imputato del procedimento si ponesse come “collettore degli interessi comuni da rappresentare alla casa madre o nel favorire l’apertura di nuove locali sul territorio o nel gestire momenti di conflittualità e fibrillazione tra le diverse locali”.

Dunque è compito del giudice di legittimità verificare che il giudice di merito abbia rispettato lo standard probatorio con riferimento alla esternazione della capacità intimidatrice.

La Corte di Cassazione riprende i giudici di merito, ritenendo che dovessero valutare anche gli esiti definitivi dei processi nei confronti dei coimputati giudicati separatamente.

La Corte sostiene inoltre che nella sentenza impugnata vi sia una analisi lacunosa dei fatti, che ha pretermesso un’adeguata valutazione delle prove e il loro articolato e complessivo apprezzamento. Infatti, se da un lato è vero che un’organizzazione criminale trova nella commissione dei reati fine “una chiara chiave di lettura del programma delittuoso perseguito”, tuttavia la loro mancata esecuzione non può comportare una negazione della sussistenza del reato.

Ormai la giurisprudenza è pacifica nell’affermare che la prova può essere desunta, attraverso un metodo logico-induttivo, in base ad indici rivelatori del metodo mafioso quale la segretezza del vincolo, l’utilizzo di riti, il rispetto del vincolo gerarchico, l’uso di un linguaggio criptico, elementi che nel processo in questione, sostiene la Corte, sono riscontrabili grazie alle intercettazioni ambientali.

La Suprema Corte ritiene inoltre che la sentenza d’appello “violi il principio di valutazione unitaria della prova incorrendo in plurime manifeste illogicità” quando afferma che non ci sono elementi per stabilire i rapporti dei calabresi con la realtà circostante sostenendo che le conversazioni registrate abbiano carattere meramente autoreferenziale. La Corte d’Appello infatti non ha riconosciuto la sussistenza dell’associazione quando questa ha chiaramente un nucleo strutturato, direttamente collegato alla ‘ndrangheta calabrese; da questa era riconosciuta; era (ed è?) organizzata secondo la tipica struttura gerarchica, seconde le regole ed i rituali dell’organizzazione.

L’unitarietà del fenomeno ‘ndranghetista.

Secondo la Corte di Cassazione, gli elementi indiziari di maggior spessore attingono al locale genovese e alle figure di Domenico Gangemi e Domenico Belcastro (entrambi condannati in via definitiva per associazione di stampo mafioso, rispettivamente a 19 anni e 6 mesi e 6 anni, nel processo calabrese “Crimine“, n.d.r).

In particolare la Corte fa riferimento alla conversazione avvenuta in un agrumeto a Rosarno, in cui Gangemi riferiva a Domenico Oppedisano (capo indiscusso del Crimine di Polsi, il cui compito è di garantire il rispetto delle regole dell’organizzazione, anche al di fuori dalla Regione, ed il controllo sulle nuove nomine dei capi e sulle aperture dei nuovi locali) di aver riunito tutti gli anziani a Genova, ma che “le cose più strette di ‘ndrangheta le discutiamo poi noi con le persone che ci pare a noi”, aggiungendo inoltre “noi con la Calabria abbiamo tutta la massima collaborazione, tutto il massimo rispetto, siamo tutti una cosa, pare che la Liguria è ‘ndranghetista, noi siamo calabresi.. quello che c’era qui l’abbiamo portato lì” e precisando “però compare quello che amministriamo lì, lo amministriamo per la nostra terra”.

Lo stesso Oppedisano chiede la presenza di un rappresentante della Liguria ad un matrimonio in cui sarebbero state assegnate le cariche, poi ratificate durante le celebrazioni della Madonna di Polsi. Lungi dal denotare un folcloristico interesse!

La sentenza della Corte d’Appello – prosegue la Cassazione – evidenzia un difetto di fondo di natura metodologica che si traduce in una banalizzazione di indici univocamente provanti il radicamento sul territorio ligure.

L’appoggio elettorale a Saso e Praticò.

La Cassazione sostiene siano state sottovalutate più circostante relative all’appoggio elettorale fornito dagli imputati in occasione delle elezioni regionali del 2010.

Risulta ovvio che la scelta dei candidati da sostenere (Praticò a Genova e Saso ad Imperia secondo l’accusa) fosse dei rappresentati del locale, e non si può ammettere, come invece si è ritenuto in primo e secondo grado, che la vicenda fosse riconducibile ad un “concetto regionalistico dell’onore”.

Infatti la stessa Corte di Cassazione ha già riconosciuto la sussistenza dell’associazione mafiosa nella condotta di coloro che condizionano o manipolano una tornata elettorale al fine di creare le premesse per inserire uomini all’interno di un’amministrazione locale, non occorrendo che le pressioni sugli elettori assumano connotati di violenza o minaccia.

Risultano dunque illogiche le motivazioni della Corte d’Appello a sostegno di una lettura di “ordinario malcostume delle vicende elettorali”. Infatti emerge, dal contrasto insorto tra Belcastro e Gangemi sull’appoggio da fornire al Praticò, il serpeggiare di un malcontento per la gestione del locale di Genova da parte di Gangemi, che Belcastro non esitava a screditare e a contestare nelle scelte.

Le riunioni di ‘ndrangheta.

Sono stati, inoltre, valutati incongruamente incontri ampiamente provati.

La riunione a Bordighera nel gennaio 2010, caratterizzata da un’estrema segretezza e particolari cautele (la cd. staffetta) per evitare il rischio di pedinamenti, che invece la corte territoriale interpreta come “un incontro tra amici e paesani legati da trascorso di ‘ndrangheta”.

Ancora più eclatante è la riunione del febbraio del 2010 presso l’abitazione di Giuseppe Caridi nel corso della quale Alessandro Caridi (all’epoca consigliere comunale di Alessandria) e Antonio Maiolo ricevettero le doti alla presenza di Domenico Gangemi, Onofrio Garcea ed altri.

Altrettanto importante il summit di Bosco Marengo (maggio 2010) dove si discuteva con Domenico Gangemi riguardo la creazione di un autonomo locale in territorio piemontese, il che dimostra, oltre che gli stretti legami tra liguri e piemontesi, anche una supremazia storica dei locali liguri.

Incoerente ed illogica, secondo la Cassazione, l’interpretazione delle molteplici intercettazioni ambientali dalle quali emergono episodi precedenti connotati da una spiccata attitudine del metodo mafioso, e che invece la Corte d’appello liquida come “frutto di vanteria e privi di rilevanza esterna”.

La conversazione in cui Gangemi dichiara di “aver rischiato l’ergastolo mille volte per la dignità, per la bellezza della Calabria… che se fossero stati della Ionica, che se fossero stati della Piana, che se fossero stati di Reggio, che se fossero stati di Catanzaro”, per la Corte genovese è indicativa di un forte legame con la Calabria come terra d’origine, ma non autorizzerebbe un collegamento con la ‘ndrangheta criminale. Il giudice di legittimità sottolinea come invece “la connessione operata dallo stesso imputato ai suoi trascorso delittuosi e alla ‘ndrangehta non potrebbe essere più chiara”.

Di particolare rilievo le intercettazioni operate nell’autovettura di Onofrio Garcea: nel recarsi alla riunione presso l’abitazione di Caridi, Garcea, conversando riguardo alla necessità di un controllo del territorio e delle attività economiche, lamenta la scarsa operatività della compagine per eccesso di discussione, mentre “ognuno di noi quando andiamo da una persona e gli diciamo la tale cosa è così, ci deve favorire in tutte le maniere”. Lo stesso Garcea, lamentando il mutamento dei tempi anche nella società malavitosa, afferma che “una volta camminavo con due pistole addosso, ora cammino con due telefonini”. La Corte d’Appello interpreta tutto ciò come conferma dell’assenza di operatività del locale di Genova, svalutando illogicamente i trascorsi criminali del Garcea, imputato separatamente per gravi fatti quali usura aggravata e sostegno a detenuti di ‘ndrangheta, nonché favoreggiamento personale della latitanza.

Conclusioni.

La Suprema Corte annulla dunque con rinvio ad un’altra Sezione della Corte d’Appello di Genova per un nuovo giudizio sulla configurabilità dei locali e sulla partecipazione ad essi dei singoli imputati.

La sentenza viene annullata per vizio di motivazione: infatti il giudice d’appello, tra le altre, afferma che il fatto “non è qui dimostrato”, non spiegando in quale modo questa affermazione si concili con altre, contenute nella stessa sentenza, dove si fa riferimento alla certa esistenza a Genova di persone e strutture legate alla ‘ndrangheta calabrese, agli incontri di carattere ‘ndranghetista, alle conversazioni “inequivocabilmente riferibili ad un contesto mafioso” ed a convegni “sicuramente destinati a discutere di fatti di ‘ndrangheta”.

Le motivazioni sono caricate in archivio giudiziario (clicca qui per la sentenza).

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