24 novembre 2017, otto anni dall’efferato omicidio di Lea Garofalo, voluto da Carlo Cosco, il suo ex compagno. Alle 19.00 una piccola folla di cittadini di tutte le età si riunisce ai Giardini Comunitari “Lea Garofalo” di viale Montello 3, davanti a quella che era la casa di Lea e di sua figlia Denise ma anche uno dei cuori pulsanti della ‘ndrangheta a Milano. In un clima di commozione e di coinvolgimento, iniziano a scorgersi bandiere colorate di Libera. Si accendono le candele, l’atmosfera si fa più raccolta e cominciano gli interventi. Appena dopo le note del maestro Raffaele Kohler, Lucilla Andreucci, referente di Libera Milano, prende la parola: i suoi occhi lucidi trasmettono l’importanza di trovarsi in questa umida serata di novembre a ricordare Lea e il suo coraggio, a pochi passi dalla sua casa, nella Milano in cui riponeva le migliori speranze per il futuro di sua figlia Denise ma anche per il proprio, di futuro, da donna libera. Sperava in una Milano libera dalle regole insensate della ‘ndrangheta: regole che, come viene sottolineato nel secondo intervento dall’avvocato Enza Rando, legale di Denise costituitasi parte civile nel processo, ha ritrovato uguali a Milano. Regole a cui si è ribellata, con coraggio, per scardinare questa tradizione secondo cui il compito della donna – educare i figli al rispetto dei principi di violenza, sangue e silenzio in cui la ‘ndrangheta affonda le proprie forti radici – è subordinato alla figura della donna in quanto tale. Si è ribellata anche alla definizione che le veniva attribuita dalle istituzioni quand’era in vita: collaboratrice di giustizia. Questo punto è affrontato anche dalla Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi, che ha sottolineato la fondamentale ma spesso trascurata differenza tra i collaboratori e i testimoni di giustizia e auspica che la il Parlamento approvi presto una legge “fondamentale” che è quella per la tutela dei testimoni di giustizia, appunto. Cosa che Lea era: una giovane donna che, seppur cresciuta in un ambiente mafioso, non si è mai immischiata, anzi. L’ha sfidato. Per sua figlia sì, ma anche – e non meno – per sé, e oggi anche per tutti noi.
Con altrettanta commozione, la memoria va anche ad un’altra vittima innocente di mafia: Celestino Fava, ucciso ad appena 22 anni a Palizzi (RC), il 29 novembre 1996. A ricordarlo, per la prima volta in una commemorazione pubblica a Milano, le cugine Mafalda Zirilli e Rossana Lombardo e il fratello gemello Antonino: la semplicità della vita di questo ragazzo, musicista appassionato e con il grande sogno di vivere a Milano, l’impeto nella testimonianza dei suoi cari hanno fatto percepire chiaramente il dolore e la voglia di giustizia della famiglia. Il viso teso di Antonino, la voce emozionata di Mafalda e la forza dell’affermazione “La mafia è una montagna di merda!” di Peppino Impastato, pronunciata da Rossana, hanno responsabilizzato la platea silenziosa e coinvolta in ascolto. Una responsabilità che inizia con la memoria di tutte le vite spezzate ma che deve proseguire con l’impegno, quotidiano, di ciascuno ad adoperarsi per una realtà in cui venga fatta luce e giustizia sui fatti. Una realtà in cui non ci sia spazio per le bugie e per il silenzio; in cui non ci sia nemmeno mai più spazio per storie come quella di Lea e di Celestino. Lea e Celestino, coetanei, amanti della vita, desiderosi di felicità a Milano. Una felicità negata, violata dalla ‘ndrangheta. Un bambino e una bambina, studenti delle scuole di Mediglia, li hanno ricordati nelle loro letture preparate per l’occasione: piccoli semi di una rivoluzione iniziata più di otto anni fa.
Con il cuore pieno di speranza, parte il corteo. Una folla sempre più corposa invade le vie di Milano, accompagnati dalla gioia delle note della “Banda degli ottoni a scoppio”. Più di 150 persone, ora sventolano bandiere, accendono luci, marciano nel freddo della sera. Occhi curiosi si chiedono chi siano queste persone con le fiaccole, che cosa stiano facendo e chi sia quella donna ritratta sulle bandiere colorate. “ Ah sì, oggi è l’anniversario della morte di Lea Garofalo!” echeggia qua e là. Il corteo si conclude in via Melzi d’Eril, all’istituto “D. Marignoni–M. Polo” presso cui va in scena lo spettacolo “Pi Amuri – Ballata per i fiori innamorati” della Compagnia del Bivacco. Tre ragazze, Benedetta Marigliano, Lucia Nicolai ed Eleonora Iregna, raccontano la storia di tre donne coraggiose: Rita Atria, Piera Aiello e Saveria Antiochia, concludendo con un ricordo commosso alla “rosa nata e cresciuta nel cemento”, Lea. Uno spettacolo diretto e schietto che trasmette, con semplicità, l’ assoluta necessità della rivoluzione di queste donne. Uno scroscio di applausi e molti occhi lucidi concludono lo spettacolo a cui seguono gli interventi conclusivi di Irene Latuati e Marilena Teri, due ragazze del presidio giovanile Lea Garofalo, commosse per ciò che Lea ha contribuito a creare: una cittadinanza coraggiosa che, anno dopo anno, la ricorda e dalla sua storia trae forza. Portavoce della Calabria che si ribella, Don Pino Demasi conclude gli interventi sottolineando il dovere collettivo della memoria e dell’impegno, per essere “ partigiani di una nuova resistenza”, per avere “un tantino più di libertà”.