di Giulia Zuddas
Ieri pomeriggio, in una sala gremita dello Spazio Melampo di Milano, Arianna Zottarel, collaboratrice dell’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata (Cross), ha presentato il suo libro “La mafia del Brenta. La storia di Felice Maniero e del Veneto che si credeva innocente” (edito da Melampo Editore), con il quale quest’anno ha vinto il premio “I quaderni di Trame” del Festival di Lamezia Terme dedicato ai testi sulla mafia. Il libro, presentato dall’autrice assieme al professore Nando dalla Chiesa, sociologo e direttore del Cross, e al giornalista de Il fatto quotidiano Mario Portanova, nasce come tesi di laurea magistrale che, nel 2016, ha vinto il premio Pio La Torre-Piersanti Mattarella come migliore tesi sulla mafia e sulla criminalità organizzata.
Mala del Brenta. Era questo il nome che veniva attribuito all’organizzazione di Felice Maniero, criminale che nella metà degli anni Settanta ha dato vita a un’associazione a delinquere di stampo mafioso nella zona estesa tra la provincia di Venezia e quella di Padova. Arianna Zottarel, ricostruendo meticolosamente da un punto di vista sociologico il periodo in cui Maniero agì, dalla metà dagli anni Settanta fino alla sua cattura avvenuta negli anni Novanta, ha suddiviso in tre fasi l’evoluzione dell’organizzazione: gli anni Settanta sono stati caratterizzati da una attività criminale minore, fatta perlopiù di piccole rapine di generi alimentari, pellami e gioielli; ci sono stati poi i primi anni Ottanta durante i quali, con rapine più mirate a laboratori orafi, hotel e casinò, i malavitosi del Brenta si spinsero fino al sequestro di persona ed entrarono nel traffico di stupefacenti. Il loro profilo criminale assunse lineamenti netti e definiti nel periodo compreso tra il 1984 e il 1994, durante il quale consolidarono i loro traffici di armi, di stupefacenti, le estorsioni e le ricettazioni.
Le rapine ai laboratori orafi, molto produttivi nella zona di Vicenza, permisero a Felice Maniero e ai suoi collaboratori di accumulare un patrimonio che servì ad avviare una serie di traffici illeciti a Campolongo Maggiore, a sud della Riviera del Brenta, epicentro delle loro attività, e nelle province di Venezia e Padova. Sfruttarono così la loro posizione geografica per inserirsi nelle rotte criminali al confine dell’Italia. Oggi possiamo parlare di mafia del Brenta perché c’è una sentenza che lo sancisce; ma per molto tempo c’è stata una forte reticenza nel definire l’organizzazione di Felice Maniero come qualcosa di più di una semplice banda di criminali. “Diversi processi di rimozione su più fronti” spiega Arianna Zottarel nella sua analisi “hanno da sempre interessato il Veneto, così come altre regioni del Nord Italia. Rimozione, sottovalutazione e negazionismo del fenomeno mafioso. Non sempre per complicità, quanto più per problemi di riconoscimento dovuti alla scarsa consapevolezza del fenomeno, o per le poche grandi operazioni della magistratura, che non hanno scosso il territorio veneto al pari di altre realtà”. Da qui il titolo del libro, Mafia, e non Mala, del Brenta. “Sarebbe concettualmente errato” continua Zottarel “cercare di comprenderla paragonandola con specificità e con la storia di altre organizzazioni, cercando narrazioni e suggestioni comuni. Si tratta di un caso speciale di mafia autoctona perché è un nuovo insediamento mafioso; non è il risultato di un processo di esportazione o colonizzazione e prende le distanze dalle caratteristiche delle tradizionali organizzazioni precedentemente conosciute, condividendone però il metodo mafioso”.
La personalità carismatica di Felice Maniero lo ha legittimato da subito leader dell’organizzazione, fino al 1994, anno in cui venne definitivamente arrestato (dopo una prima evasione dal carcere di Padova) e cominciò a collaborare con la giustizia. La Mafia del Brenta venne così smantellata e oggi, nonostante la figura emblematica di Felice Maniero venga ancora idealizzata e romanzata in certi ambienti, Campolongo Maggiore è diventato un centro antimafia punto di riferimento per tutta la regione.