di Mattia Maestri

L’eroe borghese. Così lo definì il giornalista e scrittore Corrado Stajano nel suo libro. Semplicemente un uomo per bene, capace, scrupoloso. Impegnato, in un periodo drammatico per il Paese, come commissario unico liquidatore della banca privata italiana, guidata allora dal siciliano Michele Sindona. Lo lasciarono solo, tra le minacce e le intimidazioni, fino alla morte, quell’11 luglio 1979, sotto casa, a Milano. Nessun politico ebbe il coraggio di partecipare al suo funerale. E solamente nel 1999, vent’anni dopo la sua morte, lo Stato italiano ne riconobbe “l’inflessibile rigore e costante impegno” con la medaglia d’oro al valor civile.

Nato a Milano il 17 ottobre 1933 da una famiglia, appunto, borghese, cattolica e conservatrice, Giorgio Ambrosoli decise di seguire le orme del padre Riccardo e si laureò in Giurisprudenza nel 1958. Iniziò subito a lavorare presso lo studio dell’avvocato civilista Cetti Serbelloni. Era bravo il giovane Ambrosoli. E fu subito premiato con l’opportunità di affiancare come segretario il gruppo di 3 commissari liquidatori della Società Finanziaria Italiana da tempo in profonda crisi e al centro di un dissesto finanziario e bancario, anche con risvolti politici. Un incarico difficile e scomodo. Ma lui non si rifiutò; anzi, rilanciò. In dieci anni diventò il vero leader dell’azione liquidatoria. Dieci anni importanti, che diedero al giovane avvocato conoscenza, competenza ed esperienza sufficiente per affrontare un nuovo e intricato crack finanziario. Quello della banca privata italiana di Michele Sindona. Ostacolato, isolato, l’avvocato Ambrosoli inviò dopo cinque mesi la sua prima relazione alla Banca d’Italia, nella quale risultava, oltre alla passività dell’istituto, la richiesta al tribunale della dichiarazione di insolvenza e l’avvio dell’azione penale nei confronti del banchiere.

Parallelamente all’acquisizione dell’incarico, Ambrosoli cominciò a subire minacce, finalizzate alla realizzazione di documenti comprovanti la buona fede di Sindona. Se così si fosse fatto, lo Stato italiano avrebbe dovuto ripianare, per mezzo della Banca d’Italia, i debiti della banca di Sindona. L’avvocato Ambrosoli non si fece intimidire e completò il suo lavoro con profondo senso dello Stato. Aveva scoperto relazioni personali inquietanti, ben visibili attraverso i conti correnti bancari. Sindona aveva stretto legami di primo livello con il Vaticano (e la sua ‘zona oscura’, come lo Ior), la massoneria (soprattutto la P2 che fu scoperta anni dopo), l’alta finanza e la criminalità organizzata (Cosa nostra siciliana e americana). Con queste ultime fu un rapporto duraturo, dedito al riciclaggio di denaro proveniente dal traffico di stupefacenti. Riciclaggio per il quale, nel 1967, fu segnalato dall’Interpol statunitense, proprio a causa dei suoi rapporti con la mafia statunitense.

Un intreccio pericoloso. Troppo pericoloso per una persona abbandonata dalle istituzioni pubbliche. “Mi scusi avvocato Ambrosoli”, in questo modo si rivolse il killer William Aricò all’avvocato Ambrosoli, di ritorno da una serata tra amici, trascorsa a guardare la boxe in televisione. Sparò quattro colpi. Ambrosoli morì sull’ambulanza che tentò invano di trasportarlo d’urgenza in ospedale. Era la sera dell’11 luglio 1979.

“Ambrosoli se l’andava cercando”, con queste parole Giulio Andreotti commentò l’omicidio in una puntata de La storia siamo noi del 2010. Andreotti si sbagliava. Ambrosoli fece il suo lavoro, con impegno, con dedizione, con coraggio. Non cercò nient’altro che la verità in mezzo a tutto quel materiale che ereditò nel 1974. Onesto, scrupoloso, intransigente. Un esempio. Quarantuno anni dopo, ricordiamolo.

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