di Mattia Maestri

Autobus 165. Marano, comune della città metropolitana di Napoli. All’incrocio con via Lazio si legge “Via Salvatore Nuvoletta, Carabiniere. Medaglia d’oro alla memoria”. Nella stessa via, il Comando dei carabinieri è dedicato a Salvatore Nuvoletta. Poco distante si scorge lo Stadio sportivo comunale Salvatore Nuvoletta. Carlo Levi scriveva che “le parole sono pietre”, ma anche le ‘pietre’ parlano, ricordano, contribuiscono a costruire la memoria collettiva di un Paese. Come il monumento ai carabinieri inaugurato nel novembre 2018 a Trezzano sul Naviglio (Milano), situato nella piazzetta adiacente alla Caserma, intitolata proprio a Salvatore Nuvoletta.

‘Nuvoletta’, però, evoca anche altri ricordi. Infatti, questo cognome è conteso negli anni dalla camorra e dallo Stato. Perché da decenni a Marano a dominare è proprio il clan Nuvoletta. Ci sono Lorenzo e Angelo Nuvoletta, due fratelli con le mani sporche di sangue. Capi indiscussi dell’omonimo clan di camorra, che insieme ai Bardellino, ai Gionta, ai Giuliano, agli Alfieri e ai Galasso, compongono la cosiddetta Nuova Famiglia, cartello camorrista nato per ostacolare e impedire l’egemonia della rivale Nuova Camorra Organizzata del boss Raffaele Cutolo. Una faida che tra il 1979 e il 1983 conta circa novecento morti.

E poi c’è Ferdinando Nuvoletta, poco più di cinquant’anni all’inizio degli anni Ottanta. Cinque figli impegnati nelle forze dell’ordine: un poliziotto e quattro carabinieri. Gennaro ed Enrico hanno da poco concluso il servizio come agenti di scorta del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, durante gli anni di piombo. Salvatore, invece, è l’ultimo ‘dono’ di papà Ferdinando e mamma Giuseppina (Gargiulo) all’Arma dei carabinieri. Si arruola a 17 anni. Primo incarico: Casal di Principe. Senza timore, neomaggiorenne, ferma per strada i giovani rampolli delle famiglie dei Bardellino e degli Schiavone. Ogni volta che si presenta l’occasione, cerca di far rispettare la sua divisa, anche ai ‘guaglioni’ che imperversano indisturbati in città. Si indigna anche con alcuni suoi colleghi, che dimostrano una evidente tolleranza nei confronti degli uomini dei clan.

Estate 1982. Durante un posto di blocco e un successivo conflitto a fuoco rimane ucciso Mario Schiavone, detto Menelik, nipote del boss Francesco ‘Sandokan’ Schiavone. Il clan retto da Antonio Bardellino chiede il conto alla caserma locale. Qualcuno indica: “Salvatore Nuvoletta, 20 anni, carabiniere”. Il giovane che il giorno della sparatoria non è nemmeno in servizio. Il giovane con lo stesso cognome del clan rivale, al quale si chiede il benestare per commettere l’omicidio, seguendo l’antico principio di territorialità. Il killer Antonio Abbate è infatti sodale dei Nuvoletta camorristi di Marano. E a Marano di Napoli, quel 2 luglio 1982, c’è Salvatore con in braccio un bambino. Una voce scandisce “Salvatore Nuvoletta…”. Lo sguardo del giovane carabiniere che rapidamente intuisce quello che sta per accadere. Il tempo di lanciare lontano il bimbo, per poi essere barbaramente trucidato.

Vent’anni. Isolato e forse ‘tradito’ dal suo stesso Maresciallo, o almeno così dichiara Carmine Schiavone, boss dei casalesi divenuto collaboratore di giustizia all’inizio degli anni Novanta. Una morte quasi annunciata, perché la madre in quei giorni chiede a Salvatore di “andarsene per un po’”. Perché le voci che circolano si fanno sempre più soffocanti. “Mamma ma come vado via? Io sono un carabiniere, non me ne posso andare!”, risponde Salvatore, con una semplicità disarmante. A vent’anni offre la migliore definizione di ‘Etica della professione’, che per un appartenente all’Arma dei carabinieri si traduce in ‘spirito di servizio’. Servizio ad uno Stato che a Marano di Napoli è impersonato dai Nuvoletta che combattono i clan di camorra. E se a distanza di 38 anni ancora ricordiamo Salvatore, facendone quotidiana memoria, allora, forse, hanno vinto i Nuvoletta. Quelli dell’Arma.

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