di Thomas Aureliani
Capita a tutti di scorrere, a volte compulsivamente, i post di Facebook con il proprio telefonino. E capita a tutti di incappare, grazie ad un algoritmo di cui si disconoscono i meccanismi, nelle pubblicità dell’oggetto che stavi cercando da tempo. Qualche giorno fa mi è capitato esattamente il contrario. Una pubblicità sponsorizzata mi propone infatti un nuovo brand che promette di essere “riconoscibile e potente” e “sinonimo di carattere risoluto, di scelte da leader e di stile da vendere”. Il nome è tutto un programma: “El Chapo-Milano”: il soprannome del narcotrafficante messicano più potente al mondo, ora in carcere, accostato al nome del capoluogo lombardo.
Questo nuovo “streetwear Urban” ha l’obiettivo di portare “la strada e la sua arte nell’abbigliamento di tutti i giorni”, “accessori e abbigliamento per la giornata in città frenetica e intermittente, al lavoro, a scuola, in viaggio”. Insomma, vestendo il marchio El Chapo vivi a testa alta nella convulsa Milano, in ogni occasione. Sul sito è possibile osservare un ragazzo e una ragazza giovanissimi e belli che mostrano con fierezza felpe “urbane” e girocolli, fotografati per le vie della città meneghina. Persino sulle scale della metropolitana in piazza Duomo. L’assortimento non è nemmeno troppo vario: felpe “El Chapo Flower” rigorosamente con il “polsino sinistro rosso, segno distintivo di El Chapo” (chissà perché poi?!), T-Shirt con la Calavera, il teschio messicano sorridente e colorato, e poi ancora altre felpe targate “la Santa Muerte”, un culto millenario a cui è stato affibbiato, impropriamente, l’appellativo di “madonna dei narcos”, e infine girocolli sempre “El Chapo Flower edition” utilizzabili anche come mascherine in questa epoca pandemica.
Il nuovo marchio milanese si definisce dunque “potente” e “risoluto”. Aggettivi che calzano anche per Joaquín Archivaldo Guzmán Loera. Era ed è così potente e risoluto tanto risoluto da mettere a ferro e fuoco, con il beneplacito di mezza classe politica e svariati pezzi delle istituzioni dello Stato messicano, l’intero paese e il suo feudo: Sinaloa. È stato uno dei protagonisti indiscussi della scalata dei cartelli messicani verso il gotha del narcotraffico mondiale e uno degli attori principali della “Guerra al Narcotraffico”, un conflitto interno non riconosciuto internazionalmente che ha provocato circa 300 mila morti e oltre 70 mila desaparecidos.
In questo e in molti altri contesti non solo messicani, il consenso e la legittimità sociale di narcotrafficanti e mafiosi è cresciuta dismisura, così come la narcocultura, la subcultura legata al mondo del narcotraffico ormai nemmeno troppo “sub”. La “brandizzazione” dei suoi protagonisti fa parte di questo fenomeno sociale e culturale più ampio e contribuisce alla creazione del mito dell’uomo che si è fatto da sé e che ha battuto i “poteri ufficiali” ingiusti. L’utilizzo di nomi e pseudonimi di narcotrafficanti come marchio non è quindi un’invenzione dei creatori di “El Chapo-Milano”. È un mondo che produce un business importante e redditizio, soprattutto in Messico e soprattutto grazie al nome di El Chapo. Proprio lo scorso luglio la figlia Alejandrina Gisselle Guzman Salazar aveva lanciato il marchio “El Chapo 701”. Il nome fa riferimento alla posizione assegnata da “Forbes” al capo del cartello di Sinaloa all’interno della lista degli uomini più ricchi del mondo. Una delle pubblicità che promuovono i prodotti (tra cui vestiti, accessori e addirittura birre) sottolinea come il padre fosse “nato in montagna… Un modesto venditore di arance con grandi obiettivi e grandi ambizioni. Orgoglioso delle sue origini, amico di tutti, leader volenteroso, attento, sempre presente per il suo popolo, con forti aspirazioni e ideali. Coraggioso, carismatico e onorevole…”.
La glorificazione dei Robin Hood che rubano ai ricchi per dare ai poveri è ben radicata in diversi ambienti sociali, specialmente in regioni dove le istituzioni dello Stato sono lontane o peggio, complici di poteri criminali. La glorificazione del buon bandito è forse il tratto che caratterizza maggiormente la narcocultura. Ne fanno parte i famosi “narcocorridos”, le canzoni che esaltano le gesta dei narcotrafficanti. Originariamente i “corridos” erano canzoni popolari che cantavano le gesta dei rivoluzionari ma anche della gente comune e dei campesinos. Alla costruzione del mito attorno a figure come El Chapo contribuiscono anche note serie televisive, telefilm e soap opera che, viste senza un’adeguata lente di ingrandimento consapevole, possono far attecchire la narcocultura anche lontano dal Messico. Ricordo un breve dialogo con una nota show girl quando su Instagram le scrissi un commento chiedendole se sapeva chi fosse Pablo Escobar mentre indossava la felpa di “Narcos”. Qua non si tratta di moralismo o bigottismo, come mi rispose stizzita lei, ma solo di buon senso e di rispetto per le migliaia di vittime colombiane morte o sparite (anche) a causa delle azioni criminali di Escobar, il protagonista della serie di Netflix.
In tal senso il miglior antidoto a questi fenomeni potrebbe essere quello di riumanizzare i miti e studiare gli uomini che ci stanno dietro, creando allo stesso tempo narrazioni che mettano in luce le vittime piuttosto che i grandi traguardi criminali.
È utile ad esempio sottolineare che persone come El Chapo non rappresentano entità sovraumane che attraverso i loro superpoteri si sono costruiti la loro invincibilità in solitudine: sono potute crescere ed estendere il loro potere grazie a una ramificata rete di complicità in cui viviamo anche noi. Nel suo caso, metà ministero dell’Interno, della polizia federale e dell’esercito messicano era sua alleata durante i conflitti della “Guerra al Narcotraffico”. Lui è servito a loro, loro sono serviti a lui. La redistribuzione della ricchezza agli strati più poveri che ha compiuto e da cui proviene parte del suo consenso sociale, derivano non certo da brillanti investimenti da lui orchestrati, ma da un sistema economico-finanziario e politico connivente. L’abdicazione dello Stato e delle istituzioni pubbliche agli interessi privati, oltre che un’impunità diffusa, sono infatti i terreni coltura che fanno germogliare tantissimi “El Chapo”.
Sempre nel caso di El Chapo, è utile evidenziare che solo nella regione che ancora controlla, tra il 2004 e il 2019, sono state uccise 18 mila 143 persone e fatte sparire quasi 10 mila nella totale impunità. Tante madri, padri, sorelle e mogli di Sinaloa reclamano migliaia di persone scomparse a causa della violenza che anche lui (e il sistema di cui fa parte) ha contribuito a fomentare. Alcuni di loro scavano a mano e con picconi e pale per cercarne i resti nelle centinaia di fosse clandestine sparse per la regione. Tanti di loro hanno fondato collettivi “de búsqueda”, di ricerca come le “Sabuesos Guerreras” (Guerriere sugugi) o “las Rastreadoras” (le trackers, le “localizzatrici”).
I creatori di “El Chapo-Milano”, dopo queste considerazioni o magari dopo aver ascoltato una di queste madri, cambierebbero il nome e le fattezze del nuovo brand e dei suoi prodotti? Se la risposta è sì, allora, forse, c’è speranza.