di Nando dalla Chiesa

L’invadenza televisiva dell’ultimo libro di Michele Santoro sul caso Borsellino ha sinceramente qualcosa di surreale. Certo è inversamente proporzionale al suo valore. Come qualche lettore saprà, si tratta di un libro che pretende di offrirci la “vera verità” sulla strage di via D’Amelio. “Vera verità” raccontata a Santoro dal collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola. E che liquida l’esistenza di collusioni, di convergenze, di intese, dietro quel terribile delitto, proprio dopo che il processo sulla trattativa Stato-mafia si è chiuso in primo grado con diverse e importanti condanne. Altri, a partire da Claudio Fava, hanno già dimostrato, atti giudiziari alla mano, la falsità di alcune fondamentali affermazioni del collaboratore catanese.

Eppure bastava una conoscenza appena elementare delle cose per restare interdetti davanti alla versione di una Cosa Nostra palermitana che affida quel clamoroso attentato dinamitardo nella propria città a un catanese. Non aveva, Santoro, questa elementare conoscenza delle cose? Non è un buon segno. E comunque non avendola, era così difficile verificare sugli atti processuali i riscontri oggettivi delle affermazioni di Avola? Non è questo il mestiere di un giornalista? Il guaio è che probabilmente dobbiamo riconsiderare l’idea che abbiamo di Michele Santoro, mostro sacro di un giornalismo televisivo che si apre davanti al suo libro come il Mar Rosso davanti a Mosè.

E in effetti: perché ha scritto su questioni così delicate e importanti per la storia nazionale sdraiandosi come un microfono davanti alle “rivelazioni” di Maurizio Avola? Con che rispetto per Borsellino, per il pubblico, per il Paese? Io purtroppo ho un ricordo molto chiaro e che ancora mi brucia di qualcosa che sempre Santoro fece più di 20 anni fa (per spiegare che non si tratta, diciamo così, di un vizio senile). Fu quando portò in prima serata in Rai un ex maresciallo delle guardie carcerarie di Cuneo, Angelo Incandela, e lo presentò incredibilmente come “il braccio destro del generale dalla Chiesa”. Non l’avevo mai sentito nominare, e in ogni caso, sempre per chi abbia una conoscenza elementare delle cose, è inverosimile che un generale dei carabinieri abbia come braccio destro non un ufficiale dell’Arma ma un maresciallo delle guardie carcerarie. Ma questo gli servì per fargli dire cose da pazzi, puntualmente smentite dal diario di mio padre. Dovetti andare a Palermo, in pieno processo Andreotti, e deporre davanti a quei giudici per sei ore per contestare le affermazioni depistanti fatte al cospetto di Santoro senza alcun controllo.

E anche allora mi chiesi: ma perché lo ha ospitato? Chi gli ha detto che era il braccio destro? Non poteva verificare almeno con me, visto che ci conosciamo? Quel che pensai allora e in altre occasioni successive, in cui sempre vennero ospitate da lui falsità su mio padre (è in corso un processo a Lecce nei confronti di un ex deputato trasformato nella “vera verità” su Moro), ha trovato conferma ancora una volta. Spiace, lo so, doversi ricredere sulle persone. Ma a un certo punto i fatti hanno i loro diritti. Il giornalismo antimafioso deve farsene una ragione.

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