di Nando dalla Chiesa

Lo ricordo bene. Era un pomeriggio di agosto del 2015. Mi trovavo a Ostia con più di trenta studenti dell’Università degli Studi di Milano per una delle nostre prime esperienze di università itinerante. Eravamo seduti in circolo sulla spiaggia quando iniziò a girare tra noi una pagina di quotidiano (credo “Il Fatto”) interamente dedicata a notizie non proprio commendevoli su una associazione antimafia di Reggio Calabria dal nome molto poco rock: “Museo della ‘ndrangheta”. Su questa associazione fioccavano imputazioni di ogni colore. Truffe, finanza allegra, benefits e lussi personali, spese che nulla avevano a che fare con la lotta alla mafia. Tutto con soldi pubblici. Sottratti -va da sé- ai cittadini calabresi per foraggiare un gruppo di parassiti in nome della lotta alla mafia. Dico la verità: forse mi sarei dovuto insospettire vedendo che all’associazione veniva contestato anche il fatto di avere pagato le spese di viaggio e in qualche caso perfino un gettone di presenza agli ospiti di un importante convegno di qualche anno prima. Dove ero andato anche io a far da relatore e dove certamente non sarei andato se, oltre a perdere un giorno di lavoro, mi fossi pure dovuto pagare l’aereo, come l’articolo o il giudice o tutti e due sembravano ritenere in fondo più morale. Veniva però anche precisato che non avevo chiesto compensi. E questo mi acquietò, mi sentii riconosciuto nella mia identità militante. Sicché quando sopraggiunse un mio laureato che aveva vinto uno stage proprio a Reggio Calabria e proprio al Museo della ‘Ndrangheta, lo fulminai agitando la pagina: “mi raccomando, non ci vada, con questa gente nulla a che fare”. Il laureato abbozzò, ci avrebbe tenuto allo stage calabrese, ma di fronte ad accuse così circostanziate come pensare di mischiarsi a quell’ambiente? Di mettersi accanto a uno come Claudio La Camera, questo essendo il nome del presidente dell’associazione?

Passò del tempo. Diciamo quattro anni. Scenario radicalmente cambiato. Interno sera in una splendida villa messicana, di proprietà di una associazione impegnata nella promozione della giustizia; soldi privati stavolta, dunque tutto ok. Nella riunione di alcuni studiosi e magistrati entrò un tipo magro, scavato, sottili capelli grigi. Me lo presentarono, perché cambiando continente non l’avevo riconosciuto: Claudio La Camera. Quiii? Proprio qui me lo devo trovare?, pensai. La logistica di Città del Messico mi costrinse a passare con lui due giorni. Mi parlò degli ultimi suoi viaggi. Tijuana, Ciudad Juàrez, lo stato di Guerrero. Posti ad altissimo rischio. Tra me e me pensai che i parassiti in genere non amano rischiar la pelle. Mi parlò poi dei suoi viaggi e soggiorni presso i missionari africani o in Amazzonia. E di nuovo pensai che i truffatori non vanno a fare i volontari in Amazzonia. In poco tempo mi feci un’idea più precisa di quello che era successo, delle ragioni per cui gli avevano messo sotto sequestro tutti gli averi, perché anche questo accadde in nome della lotta tutta d’un pezzo all’antimafia parassita. Mi feci un’idea del groviglio di fattori che lo avevano portato a lasciare la sua terra, a sgomberare il terreno della sua presenza. A ripristinare, diciamolo, la normalità calabrese. Dove non è previsto che vi siano solide associazioni antimafia, perfino sostenute con pubblici denari, pensa te la pazzia.

Finché ho letto recentemente qualcosa del processo, conclusosi lo scorso dicembre in primo grado dopo sei anni (sei anni!) di sospetti o meglio certezze circa le vergogne perpetrate dal Museo. Assoluzione piena per le accuse di truffa e gli altri reati maggiori, condanna a nove mesi per una fattura disordinata a sostegno di un commerciante vittima di ‘ndrangheta. Una intera galleria di accuse è franata sbriciolandosi. Io però mi sono soprattutto scandalizzato vedendo quali erano state considerate spese improprie: la posa di pietre d’inciampo per ricordare i caduti della lotta alla ‘ndrangheta davanti al Tribunale di Reggio; l’affitto di un pullman per andare a Gioia Tauro a esprimere solidarietà a un imprenditore dopo un attentato subito a colpi di kalashnikov; le mollette (le mollette!!) per appendere i cartelli di una mostra anti-‘ndrangheta. E molte altre voci consimili. Tutte ritenute “incoerenti” con le finalità antimafia dell’associazione. Sarò sincero: a me invece sembrano tutte straordinariamente e meritoriamente coerenti. Se qualcuno è stato o è di parere contrario, è arrivato il momento che ne dica per intero le ragioni davanti all’opinione pubblica nazionale. Soprattutto se grazie a queste “ragioni” una delle più importanti associazioni antimafia del Sud è stata rasa al suolo. Con somma, godutissima gioia dei soliti noti. Perché, come non mi stancherò mai di ripetere, “la vera forza della mafia sta fuori dalla mafia”.

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