di Sara Brugnoni
“Mio padre si chiama, e non si chiamava, Domenico Nicolò Pandolfo. Uso il presente intenzionalmente”. Sono queste le parole di Marco Pandolfo, figlio del primario di Neurochirurgia dell’ospedale Riuniti di Reggio Calabria ucciso dalla ‘ndrangheta il 20 marzo 1993.
Quel giorno, Nicola Pandolfo, come veniva affettuosamente chiamato dalla famiglia, si trovava a Locri per un consulto medico quando venne ammazzato da due killer con sette colpi di pistola.
La sua unica colpa era quella di aver svolto il proprio dovere. Pochi mesi prima della sua morte, infatti, il neurochirurgo aveva operato la piccola Paola Cordì di nove anni, colpita da un tumore al cervello. Pur avendo comunicato alla famiglia che le possibilità di salvare la bambina si aggiravano intorno all’1%, Domenico Nicolò Pandolfo aveva comunque accettato di sottoporla a un intervento d’urgenza, con la speranza di salvarle la vita, limitando i danni che la massa tumorale stava provocando.
Nonostante tutti gli sforzi e l’ottimo lavoro dell’equipe medica, l’operazione non ebbe esito positivo e Paola perse la vita poco dopo. A seguito della morte della figlia, il padre Cosimo Cordì richiese la cartella clinica della bambina, elemento che fece immediatamente insospettire Pandolfo, al punto da comunicare alla moglie il nome dei Cordì, chiedendole di ricordarlo nel caso gli fosse accaduto qualcosa.
A Locri era già capitato un simile episodio nel 1988, quando l’allora primario di Chirurgia di Locri, Girolamo Marino, era stato assassinato dalla ‘ndrangheta perché ritenuto responsabile della morte di una bambina da lui operata.
Ho avuto il piacere di incontrare personalmente Marco Pandolfoche, dopo essersi avvicinato alla rete di “Libera. Associazioni e numeri contro le mafie”, nel 2016 ha iniziato a raccontare pubblicamente la storia di suo padre. Non un eroe, come lui stesso tiene a ribadire, ma come tutte le vittime innocenti di mafia, persona normale che, come altre, hanno scelto di continuare a svolgere il proprio dovere, pur consapevole del rischio che correva.
Con l’assassinio del professor Pandolfo la ‘ndrangheta non ha ucciso solo un padre di famiglia, ma ha privato l’intera società di un eccellente neurochirurgo, che avrebbe potuto salvare numerose vite nel corso della sua intera carriera.
In merito a questo omicidio non si è giunti a una verità giuridica, nonostante lo stesso Domenico Nicolò Pandolfo in punto di morte avesse confermato che l’attentato era stato eseguito dal clan dei Cordì.
A distanza di poco tempo dall’attentato, fu il dottor Nicola Gratteri, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri, a disporre lo stato di fermo per Cosimo Cordì in qualità di presunto mandante dell’omicidio.
Le indagini si dimostrarono tuttavia inconcludenti. Nessuno volle testimoniare quanto accaduto, nonostante quel giorno il luogo del delitto fosse gremito di persone.
Nell’ottobre del 1996 il caso fu archiviato per insufficienza di prove.
Domenico Nicolò Pandolfo è stato comunque riconosciuto vittima innocente di mafia da tutte le associazioni del movimento antimafia, ma non dallo Stato.
La famiglia non ha infatti ottenuto alcun indennizzo né beneficio per la perdita del proprio caro ucciso per mano mafiosa mentre stava facendo il proprio dovere.