«Le mie arance hanno quattro caratteristiche che le rendono speciali: il profumo della libertà, la “vitamina G” di giustizia, la “vitamina L” di libertà e infine sono come me, libere perché non pagano il pizzo». Mario Caniglia si definisce un contadino e un imprenditore per necessità. Mercoledì 9 novembre era nella sala consiliare di Cucciago (CO), per un incontro del ciclo “Oltre lo sguardo” organizzato dal “Coordinamento comasco per la pace” dal titolo “Le arance della legalità”. Quest’uomo umile e distinto è nato e lavora a Scordia, in provincia di Catania, ma da una decina d’anni percorre l’Italia per raccontare la sua vita da testimone di giustizia: «La mia storia inizia con uno squillo, quello del telefono di casa: la mafia voleva ammazzarmi in cambio di sua maestà il denaro. Diceva queste precise parole: « “Brutto cornuto o paghi 500 milioni o ammazziamo te e la tua famiglia”. Non ho neanche preso in considerazione la possibilità di pagarli, perché non li avevo quei soldi e anche se li avessi avuti non avrei mai dato loro una sola lira».

Il giorno successivo la telefonata, come tutte le mattine, Caniglia si è alzato alle 5 ed è andato a lavorare. Quando è rientrato a casa per il pranzo ha trovato la sua famiglia sconvolta: «Cosa era successo? Avevano telefonato ancora e minacciavano di ammazzarci. Io, a quel punto, cosa potevo fare? Il mio compito era quello di proteggere la mia famiglia, ma in che modo? Dicevano che se avessi chiamato i Carabinieri ci avrebbero fatto saltare in aria, ma io li chiamai ugualmente, con molta discrezione e cominciai a collaborare con loro».

«Il mio più grande desiderio – spiega Caniglia –  era quello di vedere in faccia chi voleva toglierci la libertà e renderci schiavi. Ho fatto l’infiltrato con una microspia attaccata addosso e chiedevo in giro agli amici e agli amici degli amici, fino a quando sono riuscito ad arrivare ai miei estorsori. Mi aspettavano con ansia, non volevano 500 milioni ma mi proposero una assicurazione a copertura totale dei rischi: “Tu paghi 20 milioni e puoi stare tranquillo”. Gli chiesi cosa mi avrebbero dato in cambio di 20 milioni e loro mi  risposero: “Se ti rubano un camion noi te lo restituiamo, se ti rubano un trattore noi te lo portiamo fino a casa, se ti danneggiano un albero sempre con noi devono fare i conti”».

A quel punto Mario Caniglia si è rifiutato di pagare e ha fatto una controfferta, giudicata dai mafiosi troppo povera e per questo motivo impossibile da accettare: 5 milioni in una sola volta e non si sarebbero più dovuti far vedere in faccia. In realtà Mario non aveva alcuna intenzione di pagare, non per problemi economici, ma perché per lui avrebbe significato fare un patto con il diavolo: « Con quell’incontro si interrompono i contatti; da quel momento c’è stato solo silenzio, un silenzio tombale, che ammazza. Quello è stato il momento in cui ho avuto più paura».

Gli estorsori vengono consegnati alla giustizia il 2 febbraio del 1999 e quello stesso giorno si presenta a casa di Mario il servizio centrale di protezione che gli propone di andare via da Scordia con la sua famiglia: «Io mi rifiuto, perché non ho fatto niente di male, anzi ho fatto solo il mio dovere. Dico ai poliziotti che sono gli altri a doversene andare e non io. Se in Sicilia tutte le persone oneste se ne dovessero andare, lì rimarrebbero solo i mafiosi». Durante la serata, Caniglia ha più volte sottolineato come sin dal primo momento abbia avuto fiducia nelle Istituzioni e nelle Forze dell’ordine e come tale fiducia sia stata retribuita: « Voglio ringraziare i miei angeli custodi che ogni giorno rischiano la loro vita per salvaguardare la mia e tramite loro ringrazio tutta l’Arma dei Carabinieri».

Numerose le domande provenienti dal pubblico, grazie alla grande disponibilità del relatore, visto che nella mattinata ha incontrato i bambini delle scuole medie, nel pomeriggio i giovani della scuola diritti umani e di sera ha raccontato nuovamente la sua storia davanti ad una platea adulta di un centinaio di persone. Oltre al suo lavoro di imprenditore agricolo, Mario Caniglia è nel Direttivo nazionale del FAI antiracket di Tano Grasso: «Lavoriamo per non lasciare solo chi denuncia, costituendoci parte civile nei processi e educando i ragazzi alla legalità, perché la lotta alla mafia è una lotta culturale. Dobbiamo fare crescere i giovani meno omertosi di noi, perché chi da sempre ha vissuto queste cose non può cambiare il proprio modo di essere, per questo stiamo seminando legalità sperando che attecchisca nei giovani».

A chi gli ha chiesto come abbiano reagito alla sua scelta i compaesani di Scordia, Mario ha risposto amareggiato: «Gli amici se ne sono andati, alcuni parenti mi salutano a stento. Ma ne ho trovati tanti di amici veri in questi 12 anni girando per l’Italia. Ho ricevuto pochissima solidarietà nel mio paese e facendo nomi e cognomi degli imprenditori collusi mi sono fatto dei veri nemici». Alle domande riferite alla difficoltà di una scelta così, ha spiegato in che modo abbia vinto la paura: «Quando ho visto in faccia i miei estorsori ho capito che in realtà loro non sono nessuno, perché è la nostra paura che li rende forti. Io sono un uomo fortunato, ho una famiglia unita di cui sono orgoglioso e con cui lavoro dalle 5 del mattino alle 9 di sera. L’educazione me l’hanno insegnata mio nonno e mio padre, entrambi erano contadini. Io mi sono “laureato” a undici anni con la quinta elementare: da lì la mia penna stilografica è diventata la mia zappa».

Non si sente un eroe, questo contadino diventato oggi un simbolo della lotta alla mafia: «Tante persone in Italia, più di trecento, sono sotto protezione come me perché gli altri non fanno il proprio dovere. Come si vive sotto scorta? Da uomini liberi. Questo è il prezzo che sto pagando per la mia libertà, ma le assicuro che sono realmente libero».

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