di Sara Manisera
La rivolta di Rosarno, conclusasi con la grande deportazione di massa su base etnica e la cacciata del “negro”, ha portato con sé una grande ondata di sdegno, indignazione e promesse. Tutti, dai sindacati agli ispettori del lavoro, dal governo alla regione, fino all’amministrazione comunale – ricordo che all’epoca il comune medmeo, sciolto nel 2009 per infiltrazioni mafiose, era guidato da una terna commissariale, coordinata dal prefetto Domenico Bagnato – promisero interventi per migliorare le condizioni di vita dei braccianti di colore. A quasi due anni nulla sostanzialmente è cambiato: i migranti africani sono tornati a Rosarno a raccogliere le clementine ma, ancora oggi, vivono in casolari ai limiti dell’umanità, lavorano due o tre volte alla settimana, se sono fortunati, e guadagnano sempre venticinque euro al giorno; dunque nelle stesse identiche condizioni, se non peggiori. Dopo la rivolta infatti, c’è stata una vera e propria militarizzazione del territorio, non associata, però, a politiche volte all’integrazione sociale e alla tutela dei diritti; sono state sgomberate le grandi fabbriche dismesse, rifugio di migliaia di lavoratori, ed è stato istituito un campo d’accoglienza esclusivamente per stranieri regolari che può ospitare un massimo di centoventi persone a fronte di una richiesta, quest’anno, già di duecento. Inoltre l’aumento dei controlli contro il lavoro nero, non è stato indirizzato alla lotta al caporalato – poiché la legge contro il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro 12 D.L. 138/2011, è stata inserita solo quest’estate nella manovra finanziaria, ma ha colpito direttamente, quei piccoli e medi produttori che utilizzavano manodopera straniera senza contratto perché già in bilico tra i prezzi imposti dalla Grande Distribuzione, la concorrenza straniera e la ‘ndrangheta. Infine, anche se le ispezioni hanno aumentato il numero di contratti di lavoro stagionale stipulati, questi non sono stati accompagnati dal reale versamento di contributi sulle giornate effettivamente svolte; di conseguenza, quei lavoratori stranieri che oggi risultano regolarmente assunti, non sempre possono usufruire dei diritti maturati (per esempio il sussidio di disoccupazione), perché il datore di lavoro ha dichiarato solo alcune giornate. Per contro, non si può certo negare che la militarizzazione del territorio non abbia portato risultati importanti in termini di inchieste aperte o di arresti, o che non ci sia stata una riduzione degli africani nella Piana di Gioia Tauro. Ma pensare che la soluzione del problema passi soltanto attraverso interventi di ordine pubblico generatori di ulteriori discriminazioni e, ispirati al rispetto della legalità, è da miopi.
Il problema delle piccole aziende contadine che muoiono, dei lavoratori sfruttati economicamente, dell’agricoltura avvelenata trascende Rosarno ma in questa periferia d’Europa ha mostrato i suoi più tragici risvolti perché qui, come in un crocevia, si sono scontrate le maggiori contraddizioni del nostro secolo: le migrazioni, la globalizzazione che distrugge le produzioni locali, le crudeli leggi sull’immigrazione, la corruzione della politica, la diffusione della cultura della violenza e le speculazioni dell’impresa criminale. I migranti ribellandosi, pertanto, hanno indirettamente difeso il diritto di lavorare e di vivere liberamente ma soprattutto, hanno difeso il diritto ad una agricoltura sana fondata sul rispetto della terra e sulla dignità dell’uomo. Per tale ragione la rivolta di Rosarno va ricordata, celebrata e onorata: appuntamento per tutti il 7 gennaio a Rosarno e a Roma la settimana successiva. Perché la lotta per un’agricoltura, un lavoro, un consumo, e un’economia diversi parte proprio dall’alleanza tra migranti, contadini e consumatori.