Martedì 27 marzo 2012. Dopo la richiesta del pm Marcello Tatangelo di condannare all’ergastolo tutti i sei imputati, anche gli avvocati di parte civile nel processo per l’omicidio di Lea Garofalo hanno esposto alla Corte le proprie ragioni.

Enza Rando, avvocato di Denise Cosco, la giovane figlia di Lea ora testimone di giustizia, ha ricordato la Garofalo come «una donna affamata di vita, che voleva stare con la figlia e mai avrebbe potuto lasciarla in quell’ambiente da cui era scappata sacrificando la sua stessa vita».  L’amarezza l’accompagna da quando ha conosciuto la sua storia perché Lea per 35 anni si è dovuta difendere da tutto e tutti, e ha voluto specificare come questa fosse «testimone e non collaboratrice di giustizia, non essendosi macchiata di alcun reato o delitto», ma con la sola sfortuna di essere nata e cresciuta in un contesto mafioso:  «Ma è pazza una donna che sceglie di essere libera da questa cultura?». Se davvero il suo compagno Carlo Cosco credeva che la figlia le fosse stata portata via immotivatamente, «perché questo amore di padre non si è rivolto al tribunale dei minori per avere Denise?». L’avvocato Rando ha descritto Lea come una mamma autorevole, che voleva insegnare alla figlia un’educazione e una disciplina autentica, e per questo ha espresso il desiderio di “quantificare un danno di speranza”:  «Dopo che Lea ha iniziato a deporre è cominciata la sua fuga quotidiana  e si è creata una strana situazione tra condizioni di protezione instabile, contro cui fece perfino ricorso. Questa difficoltà poi, facendola sentire troppo sola, le ha fatto scegliere di uscire dal programma di protezione per tentare di riavvicinarsi al suo compagno». Dopo aver sottolineato il rigore, la professionalità e l’umanità del pm Tatangelo, Rando si è associata alle sue richieste e ha respinto qualsiasi accusa di aver celebrato un processo mediatico: «L’aspetto di un pubblico silenzioso è stato molto importante per Denise e per la sua scelta, la vicinanza di tante persone normali, ragazzi e ragazze che hanno voluto esserle al fianco senza mai aver potuto vederla in volto è stato fondamentale. Denise è una ragazza di cui andare orgogliosi».

L’ avvocato Roberto d’Ippolito, rappresentante di Marisa Garofalo e Santina Miletta, sorella e madre di Lea, associandosi alle richieste del pm ha chiesto 500.000 euro di danni non patrimoniali, 250.000 di danni morali e 150.000 provvisionali per le sue assistite. D’Ippolito ha sottolineato come le istituzioni abbiano avuto una responsabilità nella scomparsa di una testimone scomoda, ha confermato il suo dissenso rispetto al pm riguardo l’aggravante dell’associazione mafiosa per i reati commessi  e ha segnalato l’occupazione illecita per decenni da parte dei Cosco di uno stabile pubblico in via Montello a Milano, «dove questi svolgevano anche spaccio di droga: un contesto chiarissimo e mafioso. Lea è nata e cresciuta in una famiglia mafiosa e con un compagno mafioso e per questo ha deciso di provare a cambiare vita».

Maria Rosa Sala, avvocato del Comune di Milano, ha ricordato che il Comune si è costituito parte civile su richiesta di Denise, sottolineando come il capoluogo lombardo sia stato per anni il luogo dove madre e figlia hanno vissuto e dove hanno cercato di tornare: «Il Comune svolge da anni una funzione anti-violenza che sta mantenendo ancora oggi, in particolare nei confronti di quella familiare e contro le donne. Sono rimasta sconvolta dall’affermazione di Carlo Cosco su Lea, “Se volevo la potevo uccidere in Calabria”, che svela un’idea di donna come oggetto di cui poter disporre liberamente». Il danno per Milano è gravissimo, secondo l’avvocato, anche perché collegato all’aspetto del substrato criminoso di tradizione ‘ndranghetista che l’amministrazione da tempo contrasta: «Il patto d’integrità della giunta Moratti è stato premiato con riconoscimenti, mentre la nuova giunta Pisapia ha creato il comitato e la commissione antimafia e un protocollo d’intesa con Libera». Per questo la richiesta avanzata è stata in «danni d’immagine o patrimoniale in minimo 500.000 euro o subordinando alla misura che la Corte ritiene idonea».

La giovane avvocato difensore di Massimo Sabatino, subentrata al più esperto Vincenzo Minasi ora in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e altri reati, è stata la prima rappresentante della difesa ad esporre la propria richiesta: «Questo processo è molto delicato perché non c’è il corpo della vittima e ciò rende tutto più difficile, partendo dal riconoscimento dei colpevoli “oltre ogni ragionevole dubbio”». Sabatino è già stato condannato per il tentato sequestro di Campobasso a 6 anni di reclusione in primo e secondo grado, ma ripercorrendo quell’episodio l’avvocato  ha sottolineato come «il mio assistito non conosceva Lea Garofalo e i suoi rapporti di parentela con i Cosco, né sapeva fosse testimone di giustizia». Pare che abbia accettato di commettere quel delitto perché convinto dal premio di 25.000 euro promesso e mai consegnato, una cifra notevole per un soggetto che per sopravvivere svolgeva già altre “attività non proprio lecite”, come lo spaccio di droga. Secondo la difesa «Ci sono coincidenze in questo processo, ma vanno dimostrate: non ci sono immagini né prove visive o telefoniche per confermare a Sabatino il sequestro di Lea Garofalo. E poi, perché i mandanti avrebbero dovuto scegliere una persona riconoscibile per il sequestro di Milano? E perché lui avrebbe dovuto commettere per la seconda volta lo stesso tipo di reato per il quale non era stato pagato come pattuito?». Contestando la ricostruzione fatta dal collaboratore Salvatore Sorrentino , l’avvocato ha criticato le indagini condotte e i sopralluoghi eseguiti, chiedendo l’assoluzione per il principio che lo permette in presenza di minimo dubbio sulle responsabilità.

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