di Sofia Cavazzoni

Corleone, 24 maggio 2012.

Nel momento in cui ho realizzato che avrei partecipato ai funerali di Stato di Placido Rizzotto devo ammettere che la voce ha iniziato un po’ a tremarmi e l’emozione ha preso il sopravvento. Da quando ho iniziato a studiare le organizzazioni criminali italiane e da quando ho conosciuto il grande mondo di Libera Terra, Placido Rizzotto, per me, è sempre stato un personaggio abbastanza emblematico. Placido Rizzotto all’inizio era il nome del buon vino prodotto nella cooperativa dei ragazzi di San Giuseppe Jato attraverso le viti confiscate ai mafiosi, ai corleonesi. Placido Rizzotto era un simbolo che portava con sé l’idea (realizzabile e realizzata) di libertà, di riconquista, di vittoria contro la Mafia. Era un simbolo che portava, in un nome, lo spirito di un gruppo, un gruppo di ragazzi che aveva deciso di dire basta ai soprusi. Ho scoperto lì, a Corleone, che Placido non fu e non è solo questo.

Sono arrivata a Palermo all’imbrunire del giorno precedente al funerale, in stato un po’ confusionale, che la città non ha aiutato a guarire. Ero già stata in Sicilia, ma forse la coscienza e la conoscenza che avevo non erano sufficienti per capire e comprendere ciò che mi circondava. Arrivata in aeroporto, situato tra mare e montagna, la leggerezza che mi aveva accompagnato in passato aveva lasciato spazio ad una strana inquietudine che mi costringeva a guardare ogni cosa come attraverso una lente di ingrandimento, ogni dettaglio, ogni particolare. Salita in macchina e imboccata l’autostrada, prima ancora del monumento in ricordo della strage di Capaci, la mia attenzione viene colpita da una grande insegna sul margine della montagna, “NO MAFIA”. Subito, appena fuori dall’aeroporto, scolpita nella montagna come nella memoria. Quello era il punto da cui l’attentatore ha premuto il pulsante che avrebbe causato la morte del giudice Falcone, della moglie e di tutti gli uomini della scorta. Primo tuffo al cuore. Proseguendo verso la città, direzione Palermo, e per esattezza verso la casa della famiglia Azoti, inizio a percepire un cambiamento d’aria, che si fa più rarefatta, più densa. La periferia della città si presenta ai miei occhi come un luogo abbandonato. Tante sono le costruzioni lasciate incompiute, disabitate e fatiscenti. Le tracce dell’abusivismo edilizio dei passati decenni sono inconfondibili, presentando un territorio che sembra ormai aver perso la sua fecondità, lasciando spazio solo a scheletri.

Perdo il senso di smarrimento solo una volta arrivata a casa della signora Antonina Azoti, figlia di Nicolò, sindacalista ucciso da Luciano Liggio nel dicembre del 1946, dove l’aria torna ad essere fresca, carica di impegno e di memoria. Ci raccontano di com’era la Palermo di una volta, la Palermo in cui Via dei Gelsomini profumava tra lo splendore delle ville liberty che la giunta Ciancimino ha abbattuto per lasciare spazio a grandi casermoni. La memoria però qui non ha perso il suo valore. Ricordare è la parola d’ordine, combattere è la quotidianità.

Il mattino dopo ci avviamo verso Corleone, il funerale inizia alle 10. Lasciandoci la città alle spalle, con il sole che inizia a sorgere, vedo Palermo, immersa nel mare e racchiusa dalle montagne. Il dualismo mare-montagna si palesa davanti ai miei occhi, facendomi ricordare quante sono le contraddizioni proprie di questa terra e come siano sempre stati bravi i mafiosi ad appropriarsene. Arrivati nella piazza di Corleone, insieme ai ragazzi di Libera, mi chiedo come sia stato possibile che quel paesino in mezzo al nulla potesse essere l’origine di questo grande male che affligge il nostro Paese. Non ha nulla di caratteristico, tante piccole case la maggior parte delle quali ormai disabitate, alcuni negozi con insegne risalenti all’ante guerra (quale?), un’edicola senza quotidiani e una chiesa fin troppo grande per i “fedeli” del luogo. Un paese senza vita. Riusciamo ad entrare in chiesa, gremita di persone accorse da tutta Italia, per dare l’ultimo saluto a quell’uomo rimasto nascosto nella sua terra per troppi anni. Le parole del vescovo che celebra la messa suonano vuote, senza significato. La mafia non viene nominata, il nome di Placido viene storpiato, Don Ciotti tenuto in silenzio. Per fortuna viene lasciato spazio a coloro che hanno sempre portato alta la memoria di Placido Rizzotto, tra cui il nipote, il segretario della CGIL Susanna Camusso e Valentina Fiore, vicepresidente della cooperativa che da lui prende il nome, la quale conclude il suo discorso dicendo:

“Noi abbiamo voluto prendere la responsabilità della tua eredità.  Con le stesse tue paure e insicurezze. Ma questa volta le cose stanno andando diversamente. Le paure e le incertezze di tanti fanno una sicurezza: la sicurezza che oggi non siamo soli, oggi non saresti stato solo. Ci sono ancora tante difficoltà, non tutti fanno ancora la loro parte, ma vedi quanta gente c’è oggi qui?”.

E di gente ce n’era tanta e tanti altri avrebbero voluto esserci.

Torno a casa, da sola, lasciando che i pensieri abbiano le meglio sulle parole. Con sollievo, il giorno dopo scopro che Don Ciotti, arrivato al cimitero, aveva preso parola, un po’ incontrollabile come è lui, riuscendo a parlare alla gente, ricordando Placido e la guerra che con lui abbiamo iniziato a combattere.

 

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