di Redazione
Falcone e Borsellino commemorati con una mostra al Tribunale di Milano, allestita dal 23 maggio e fino al 19 luglio.
Chi è Stato? Questo è il titolo, al contempo provocatorio ed evocativo, che l’Associazione Nazionale Magistrati e Libera Milano hanno dato alla mostra dedicata alla memoria dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel ventennale della loro morte, in esposizione presso il Tribunale di Milano dal 23 maggio (giorno della Strage di Capaci, in cui persero la vita Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani) al 19 luglio (giorno della Strage di via D’Amelio, in cui morirono Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina). La mostra è costituita da articoli di giornale, lettere, stralci di discorsi e foto che narrano in modo polifonico e corale la vita e la morte dei due magistrati siciliani. I titoli cupi e le colonne fitte e nere di inchiostro della carta stampata sono di forte impatto e danno un’immediata percezione della cappa di terrore e sconcerto che ricoprì l’Italia in quei giorni. “È l’Apocalisse”: grida La Stampa all’indomani della strage di via D’Amelio; “L’Italia del disonore”: titola efficacemente L’Espresso; “Una vita che poteva essere normale”: recita una copertina del Venerdì di Repubblica, sotto una foto suggestiva di Falcone. Si susseguono immagini bianche e nere destinate a diventare parte indelebile della memoria collettiva degli italiani: il cratere sotto al cartello autostradale di Capaci, via D’Amelio ribollente di fiamme e di fumo, la foto sgranata della giovanissima vedova di Vito Schifani mentre durante il funerale si rivolge agli uomini della mafia, l’immagine straziante del padre del pool antimafia di Palermo, Antonino Caponnetto, tremante e in lacrime, e un titolo nero che dà voce a quel suo sussurro del luglio 1992: “È finito tutto”.
Accanto alla narrazione pubblica dei giornali, sale però la voce degli stessi Falcone e Borsellino a raccontare le proprie vite e il mondo con cui si sono confrontati. I due giudici si rivelano come studiosi e profondi conoscitori della mafia, da loro tratteggiata con chiarezza e precisione in vari stralci di interviste e discorsi presenti sui pannelli espositivi; come “magistrati e testimoni”, nelle parole dello stesso Borsellino; come siciliani e palermitani, cittadini di una terra straziata e lacerata dagli omicidi e dalle stragi, da amare e per cui combattere perché, come scrive sempre Borsellino, “il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Fotogrammi della loro vita privata li rivelano sorridenti nell’ambiente di lavoro e sereni fra le loro famiglie. Attraverso queste immagini e testimonianze i due giudici, che sulle pagine dei giornali apparivano figure eroiche ed inimitabili, si rivelano invece in tutta la loro umanità, di uomini che vanno incontro alla morte con l’amarezza della solitudine, la rabbia di chi non è riuscito a vincere in tutto la sua lotta, il dolore di abbandonare i propri cari, ma anche con la serenità di chi sa di aver compiuto il proprio dovere fino in fondo, fino al sacrificio, e non se ne è pentito. “Perché Falcone non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è sempre stato pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui?”: chiede a voce alta, al trigesimo dalla scomparsa di Falcone, Paolo Borsellino, consapevole di essere anche lui condannato a morire di lì a poco. “Per amore!” si risponde, interpretando la vita dell’amico ma anche la propria. “Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene”.
Chi è stato? chiede la mostra, ed è una domanda a cui dopo vent’anni ancora non si ha il coraggio di dare una risposta, e ci si sente in colpa nell’osservare i volti di Falcone e Borsellino nella consapevolezza dei silenzi e delle mezze verità che ancora avvolgono le loro scomparse. Ma la mostra chiede anche: “Chi è Stato?”. Certamente non è Stato con la esse maiuscola quello che, come titola La Repubblica nel maggio 1992, ai funerali “entra in Chiesa dalla porta di servizio”; non è Stato quello che partecipava delle attività dei giudici antimafia in modo “emotivo, episodico e fluttuante”, come constatava Falcone; non è Stato quello che “manda al macello i suoi figli migliori”, come scrive Stajano all’indomani della strage di via D’Amelio. Osservando invece i volti di Falcone e Borsellino che sovrastano come numi tutelari l’entrata principale del Tribunale di Milano da un grande lenzuolo srotolato il 6 maggio scorso, leggendo le loro parole, sorridendo dinanzi ai loro sorrisi, la risposta arriva ben chiara: sono Stato, rappresentano ed impersonano in modo autentico lo Stato, tutti gli uomini e le donne che proteggono, promuovono e pongono al centro del proprio lavoro e della propria vita quotidiana i valori di onestà, legalità e giustizia per cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono vissuti e che in morte hanno lasciato in eredità a tutti noi.