Di Valentina Sgambetterra e Martina Mazzeo
Il boss della ‘ndrangheta Salvatore Giacobbe fa il bello e il cattivo tempo in un’intervista. Noi, però, avremmo qualcosa da obiettare…
È di pochi giorni fa la notizia dell’arresto di due dei tre fratelli Giacobbe a Pessano con Bornago, nel milanese. Scrivendo il pezzo di cronaca, ci imbattiamo in un’intervista apparsa sul sito del Giorno. A parlare è il padre, Salvatore Giacobbe, boss della ‘ndrangheta condannato a vent’anni di carcere per associazione mafiosa. Ci fermiamo e leggiamo, e più leggiamo e più pensiamo di voler scrivere. Di dover scrivere. Ma che cosa? E perché? L’intervista che di seguito commentiamo, in primis, si presta a qualche osservazione di tipo scientifico, volta ad argomentare e chiarire alcune delle dichiarazioni dell’intervistato; secondariamente, ci spinge ad una riflessione sull’opportunità della stessa, sulle suggestioni che muovono da essa e sulle sue, senz’altro involontarie ma ugualmente gravi, implicazioni.
Sentiamo la necessità, il dovere, di esercitare il nostro senso di responsabilità – perché sì, «le parole sono pietre» – nell’intento di sfatare fastidiosi luoghi comuni, troppo diffusi in tema di mafia. Per questa ragione vogliamo provare a dimostrare la superficialità e l’inconsistenza, in una parola: la mafiosità, di alcune affermazioni fatte da Salvatore Giacobbe nel corso della sua intervista, tenendo ben presente, in questa operazione, l’imprescindibile supporto fornito da consolidate teorie sociologiche e non trasportati dall’onda emotiva o da una certa febbre di scoop.
Spicca, tra le affermazioni di Giacobbe, il riferimento alla spontaneità con la quale gli imprenditori si rivolgerebbero ad un boss della criminalità organizzata per ricevere protezione o offrire appalti. Non si può non prendere atto che esistano personaggi dell’imprenditoria che ammiccano a collaborazioni con la mafia vedendo, o meglio credendo di vedere (la mafia non fa mai nulla gratis), in tali rapporti, l’opportunità di concludere affari e realizzare profitti in una convergenza di interessi volta a realizzare il massimo risultato con il minimo sforzo. Tuttavia, come insegna il sociologo Rocco Sciarrone, bisogna distinguere differenti tipologie di imprenditori declinate sulla base di una valutazione quanti/qualitativa del grado di coinvolgimento dell’imprenditore con l’ambiente mafioso. E’ un fatto, però, che com’è vero che esistono imprenditori collusi o addirittura mafiosi, altrettanto vero è che ad una certa fetta dell’imprenditoria, specialmente piccola e media, la protezione viene offerta o, per meglio dire, imposta dal boss che controlla la zona. Spieghiamoci meglio. Il meccanismo collaudato è il seguente:
il clan individua la vittima e comincia a minacciarla in un crescendo di azioni finalizzate a spaventare sia l’imprenditore che i suoi cari; progressivamente, le minacce aumentano d’intensità: scattano i primi avvertimenti, le prime ritorsioni. Forse salterà una gru o un capannone prenderà fuoco. A questo punto, ossia dopo aver creato il problema, il boss si rivolge all’imprenditore offrendogli protezione da quelle violenze da lui stesso perpetrate: in pratica propone la soluzione, in un pericoloso incrocio di domanda e offerta. Oppure sarà l’imprenditore stesso a rivolgersi al boss locale, di cui la fama è nota, in cambio di una “vita tranquilla” e della possibilità di portare avanti la propria attività rassegnandosi ad inserire il pizzo tra i costi strutturali della sua impresa. Rispetto agli appalti la questione è analoga ed anche più complessa. Offrire un appalto alla mafia può costituire il tragico epilogo per un imprenditore pesantemente vessato. L’alternativa potrebbe essere quella di cercare altri segmenti di mercato, in altri territori, con costi talvolta insostenibili.
Un secondo spunto di riflessione nasce a seguito del tentativo, niente affatto velato, di sminuire la portata del fenomeno mafioso al Nord. «Limitiamoci alle infiltrazioni», afferma Giacobbe. E cosa avrebbe potuto di dire di diverso? Forse che la ‘ndrangheta, al Nord, ha colonizzato interi paesi? O che la prima vera preoccupazione del mafioso è il controllo del territorio? Riteniamo possibile spingerci ad affermare che l’obiettivo primo per la mafia, e in particolare per la ‘ndrangheta, sia proprio il controllo del territorio anche a scapito del profitto. Ne è prova il fatto che la ‘ndrangheta si è diffusa nel Nord Italia attraverso la strategia della colonizzazione che ha portato ad una presenza ramificata e capillare di cellule, poi divenute vere e proprie colonie di ‘ndrangheta, in molte aree del Paese e fuori dal Paese. “Non rubano ai poveri i grandi boss”, ci vuol far credere Giacobbe, non ne varrebbe la pena e non sarebbe etico (così come etico non è il traffico di stupefacenti mentre sembra opzione contemplabile l’omicidio) ma non ci spiega che l’estorsione, il pizzo, la protezione sono metodi che hanno come finalità prima il controllo del territorio e solo a seguire il profitto.
Un’ulteriore considerazione, questa volta di carattere soggettivo, meno “scientifica”: il signor Giacobbe, «due lauree dietro le sbarre, in psicologia e sociologia», racconta di quanto sia difficile per i suoi ragazzi crescere con un cognome tanto ingombrante e liberarsi dal peso del pregiudizio. Condivisibile, se non fosse che le condanne ricevute, delle quali lui sembra fregiarsi come di un titolo, costituiscono qualcosa di più di un semplice pregiudizio; e se non fosse che essere mafiosi non è un sciagura, una calamità naturale, un evento che piomba inavvertitamente tra capo e collo. La mafia non è un cancro, per dirla con Falcone. La mafia è una scelta, a qualunque età e in qualunque luogo.
Ma vogliamo aggiungere un tassello d’analisi ancora: una riflessione sull’opportunità e sulle suggestioni di questo articolo. A partire dal titolo, con quello sfacciato riferimento al Padrino, l’impressione è che tutta l’intervista, volente o nolente, strizzi l’occhio allo stereotipo, al luogo comune. La presentazione confezionata per il boss – «in casa sua fu trovato un vero arsenale» – alimenta il mito dell’eroe invincibile e onnipotente, di ogni cosa padrone nonostante la sentenza di condanna che, anzi, sembra indossata come una medaglia al valore, un riconoscimento sociale del suo prestigio. Avvertiamo come pericolosa la fascinazione esercitabile da una simile figura, specialmente in tempi in cui un’aggressiva precarietà, materiale ed esistenziale, rischia di rinvigorire la presa di un principio tipicamente mafioso: la ricerca della via più breve al massimo risultato con il minimo sforzo. Tanto mafiose sono le risposte del boss, quanto pressappochiste sembrano le domande della giornalista. Cosa ci viene da pensare? Che al primo faccia comodo una pagina di giornale in cui gloriarsi dei suoi pregi di tradizionale uomo d’onore e che alla seconda interessi lo scoop, la notizia ad ogni costo. Le frasi si susseguono e ci si chiede se non si stia leggendo un’intervista ad un volto dello star system chiamato a giustificare pubblicamente le bravate del figlio scapestrato a cui, insomma, “è giovane e gli si perdona tutto”… Non è difficile immaginarsi il ghigno fiero di Salvatore Giacobbe, giacca cravatta e niente coppola in testa, mentre risponde alle domande. E poi, davanti ad un’asserzione della portata di «non si sputa nel piatto dove si mangia», tradotto: “sono orgogliosamente un mafioso”; davanti ad un tale schiaffo all’onestà, perché la giornalista sceglie di dare a Giacobbe un’altra occasione di celebrità ricordando che è stato citato in un libro?
Ci resta sullo stomaco questo interrogativo. E resta, ferma, anche una convinzione: sarebbe sufficiente agire con un po’ più di scrupolo, porre a se stessi qualche interrogativo in più e già la mafia farebbe i conti con un altro giornalismo.