di Ruggero Barbazza
Scrittore e giornalista, Giuseppe Catozzella scrive o ha scritto su L’Espresso, Sette de Il Corriere della sera, Il Corriere Nazionale, Max, Maxim, Nuovasesto, Milanomafia.com, e ha collaborato con la trasmissione televisiva Le Iene. Al Festival vengono presentati due suoi libri: Alveare (2011) e Fuego (2012) presso il bene confiscato di via momigliano, 3 alle ore 18 di Sabato 10 Novembre.
Prima di tutto, cosa pensa dell’iniziativa del Festival dei Beni Confiscati? Può avere un suo ruolo in un’ottica di accrescimento di consapevolezza della presenza della ‘ndrangheta a Milano?
Bisogna dire che è il primo anno che c’è il Festival, ma in realtà non è il primo anno che ci sono iniziative del genere in questo periodo. Quest’anno all’iniziativa è stato dato un nome ed è stata in un certo senso impacchettata ed ufficializzata e di certo le dà un maggiore impatto. Se così sarà, potrà essere una cosa molto positiva. Ma l’importante, sempre, è non fermarsi mai all’iniziativa, ma convertire in azione – personale e istituzionale – tutti i buoni propositi pubblicamente celebrati.
In “Alveare” (Rizzoli, 2011) lei ricorda le iniziative di sensibilizzazione antimafiosa nei confronti dell’imprenditoria al Sud (ad esempio, Confindustria Sicilia), mentre invece al nord sotto questo profilo siamo decenni indietro. Secondo lei quali sono le cause di questi differenti approcci? E come si può sensibilizzare l’imprenditoria anche al Nord?
Le cause sono legate ad un ritardo temporale incolmabile, determinato da una certa mentalità che gha reso per decenni molto più difficile ammettere la presenza della mafia al Nord, dove c’è il reale centro del potere economico. La presenza della mafia al Sud è più visibile, e quindi da sempre è stato più facile parlarne. Non nascondiamoci poi che il Sud viene spesso trattato un po’ come il “fratello brutto e cattivo” del Nord, per cui storicamente è sempre stato più facile confinare lì il male di questo paese, mentre il Nord doveva rimanere intatto, pulito, per una credibilità interna e internazionale. Questo ritardo di conseguenza è un ritardo pianificato, voluto da una parte importante della politica e dei mezzi di comunicazione che quasi mai si sobbarcano l’onere di prendersi carico dei fenomeni davvero scottanti e potenzialmente dirompenti; entrambi i “settori” spesso si muovono più volentieri sul già battuto, sul rassicurante. Non ci dimentichiamo infatti, e soltanto questo basterebbe, che vent’anni fa al Tribunale di Milano venivano condannati più di duemila affiliati alla ‘ndrangheta e comminati decine di ergastoli per associazione mafiosa in Lombardia: c’era la possibilità di prendere consapevolezza, ma evidentemente non si è voluto farlo, non era il periodo storico adatto. Rispetto agli imprenditori, è un cammino piuttosto lungo e travagliato, però se questi si sentono appoggiati dalle forze dell’ordine e dalla magistratura certamente inizieranno a denunciare di più e ad associarsi, come è successo al Sud. Quindi come sempre è necessaria una presa di posizione importante da parte dello Stato. È lo stesso discorso che facevo prima: il Comune di Milano ha promosso il Festival dei Beni Confiscati, ma se non indirizza le sue energie oltre che nell’organizzazione di un evento pubblico/festival anche sul quotidiano, tutto rischia di avere poco significato. Sarebbe per esempio bello vedere maggiore presenza del Comune, nei suoi due organismi deputati, la Commissione e il Comitato antimafia, nei luoghi in cui la ‘ndrangheta veramente c’è, nei luoghi delicati della città, nelle periferie piene di affiliati e famiglie storiche. Sarebbe bello vedere azioni concrete. Sarebbe bello un supporto attivo, per esempio, verso i commercianti sotto pizzo, o nelle aree di maggior spaccio di droga, oppure ancora semplicemente nel quotidiano, laddove gli uomini delle cosche fanno i padroni e gli arroganti come può succedere al Sud. Di questo parlo: di maggior aiuto, maggior presenza. Ecco, in questi casi, a chi vive nei quartieri periferici e non in piazza della Scala, spesso viene da desiderare che alle parole seguano per una volta i fatti. Come cittadino mi sarei sentito supportato, per esempio, da una presa di posizione sul fatto che nessuno dei consiglieri regionali lombardi (a parte uno IDV) abbia rassegnato le dimissioni prima che scattassero i due anni e mezzo necessari per il vitalizio. Davanti a una giunta che cade per ragioni di ‘ndrangheta mi sarei aspettato per lo meno un messaggio, un appoggio a chi davvero ci crede che si può cambiare. E invece niente.
Nel suo libro parla della strategia comunicativa della mafia, della pretesa di mostrarsi sotto delle vesti di emigrati semianalfabeti in modo da creare nel cittadino lombardo quel sentimento di superiorità che lo faccia ritenere “immune” al male della mafia. A questo riguardo torna il tema della consapevolezza, della giusta informazione, come secondo lei si può agire in questo campo?
Io credo che l’unico modo che esiste per creare consapevolezza è quello di non stancarsi di raccontare, di parlare, come stiamo facendo in questo momento noi, o come succederà in occasione del Festival. La testimonianza è fondamentale, le parole e le voci tengono la gente insieme, danno forza e creano unità, in nome della verità. Questo poi nel corso del tempo innesca un circolo virtuoso: la magistratura acquisisce energie anche dal lavoro dei giornalisti, degli scrittori, dei giovani, delle associazioni. Raccontare, associarsi, operare sul territorio quindi serve fattivamente, porta a più indagini, a più consapevolezza. E non tappare la bocca a chiunque si decida per il difficile passo di dar forza alla propria voce e raccontare, indipendentemente dalle appartenenze, dalle amicizie, dalle “tessere” o dagli appoggi pregressi: ogni filo di voce che si aggiunge è importantissimo, anche se è all’apparenza discordante, anche se racconta in modi diversi e non ancora battuti. Non esiste un solo modo di fare antimafia, ma tanti quanti sono i cittadini.
Molto spesso il cittadino si trova di fronte a cattivi esempi da parte delle istituzioni, situazioni come quelle della gestione case ALER, che nel suo libro viene richiamata spesso come istituzione con profonde infiltrazioni. Di fronte a situazioni in cui le regole sono piegate alla volontà degli affiliati e le istituzioni sono governate da funzionari corrotti, come può il cittadino ritrovare il rispetto per le istituzioni e per le regole?
Non può, molto semplicemente non può. Questa è una delle cose più difficili in assoluto, è difficilissimo che un cittadino un Paese riesca a produrre del buono di per sé se è circondato dal cattivo, dal marcio. Ci vuole, in questo, un’energia personale enorme. Tutto alla fine rientra nella volontà di ciascuno, una sorta di “follia” che prende alcuni piuttosto che altri, una voce interiore che spinge a fare il bene per il bene, a seguire un’idea di giustizia interiore. Certamente quando si è circondati dal guasto, dai furbi, dai ladri, dai raccomandati, tutto questo diventa difficilissimo. Molto più difficile che in un Paese in cui la “caratura morale” della società è più elevata.
Nelle ultime settimane è sembrato che ci inizi ad essere una maggiore cognizione della presenza della ‘ndrangheta in Lombardia da parte dei cittadini: esemplare la partecipazione della cittadinanza alla manifestazione antimafia promossa a Sedriano (MI) in occasione dell’arresto del sindaco Alfredo Celeste. Ritiene che qualcosa stia cambiando nella percezione della mafia al nord?
R. – Certamente qualcosa sta cambiando. Fino a qualche anno fa i giornali non ne parlavano ed era difficilissimo scriverne; oggi invece si sono fatti dei passi in avanti giganteschi, rispetto a dieci, ma anche a tre-quattro anni fa.
In ‘Alveare’ lei fa dire a un personaggio: “La mafia può esistere solo dove la gente vuole che esista. Anzi, è sempre una scelta”. Può spiegarsi meglio?
R. – La frase parte dall’osservazione di come si è mossa la ‘ndrangheta in tutto il mondo. La ‘ndrangheta ha provato ad inserirsi praticamente ovunque, ma non dappertutto ci è riuscita. Ad esempio anche nella sola Australia ci è riuscita in alcune aree, nell’area di Brisbane o Melbourne ad esempio, ma non in tutte le città, e lo stesso discorso si potrebbe fare per il Canada. Le persone che abitano in un territorio sono fondamentali per rendere quel territorio permeabile o impermeabile alla mafia. La differenza sta nella caratura morale del tessuto sociale, rileva quanto le persone pensino al bene comune piuttosto che a se stessi. Più una persona pensa solo a se stessa, alla sua “famiglia”, più il tessuto sociale è permeabile alla mafia, che appunto fa affari attraverso la corruzione, fa leva sugli interessi egoistici. Al contrario, più il tessuto sociale pensa al bene comune, più la mafia ha difficoltà ad attecchire, perché nel momento in cui ci prova viene immediatamente denunciata dagli agenti economici e sociali, i cittadini.
“Non ti fa paura che Milano brucia e tu non fai niente” è una frase che lei scrive in ‘Fuego’ (Feltrinelli, 2012) e che un po’ riassume il senso del libro. Ci può parlare un po’ in sintesi di questa Milano che brucia nella generale indifferenza? È cambiato qualcosa rispetto all’anno passato, in cui lei scriveva il libro?
Sì, è cambiato qualcosa, ma sempre a livello di piccoli passettini. Se guardiamo da molto lontano non è cambiato niente, se guardiamo da vicino qualcosa sta cambiando. Ad esempio c’è stato il caso pazzesco di Loreno Tetti, paninaro a Città Studi, che si è visto bruciare il chiosco per il suo ruolo di testimone nel processo Redux Caposaldo; in quel caso però c’è stata una risposta molto positiva della comunità, dovuta al fatto che, nella sfortuna, si è avuta la fortuna che il caso avvenisse in un posto pieno di studenti, di ragazzi, che hanno reagito con forza contro il tentativo di intimidazione. Sono convinto infatti che i giovani sentano in maniera innata il senso universale di giustizia di cui parlavo prima, che in qualche modo strada facendo nel corso della vita si va perdendo.
Nelle ultime righe del suo libro ‘Alveare’ lei scrive: “Adesso che stai per fare il gesto di richiudere questo libro ricorda che il lavoro vero comincia soltanto ora, fuori”. Ma in cosa può consistere il “lavoro vero” di un semplice cittadino, cosa può fare in concreto, soprattutto a fronte di una criminalità organizzata che spesso trova il suo posto in mancanze e assenze proprio dello Stato? E oltre ad un fare, come sviluppare anche uno sguardo critico che permetta di riconoscere nella quotidianità la mafia attorno a noi?
Ci vuole un grande sforzo. Chi ha la fortuna di lavorare torna a casa stanco, e quindi l’unica cosa che vuole fare è riposarsi, quello che non vuole fare è uno sforzo del genere. Invece uno sforzo di questa natura è necessario, perché implica l’uscire da se stessi, aprire gli occhi e volersi informare, capire dove sta il marcio che poi, alla fin fine, ti torna contro, perché quando comprendi quali sono i meccanismi capisci pure che questi meccanismi in un certo senso ti toccano, sei tu che ci vieni a perdere dal fatto che c’è la mafia, la corruzione, l’evasione fiscale. Capire questo però implica un volersi informare, volere leggere, volere ascoltare, inteso quasi come un dovere morale; e in un contesto sociale in cui a governare c’è il marcio avere tale volontà di sforzarsi per cambiare è molto difficile, tutto viene ributtato all’interno della volontà personale. Funziona però che quando poi si apprendono determinate cose non si può fare altro che parlarne, raccontarle a nostra volta, e quindi questa volontà può creare un contagio speculare e opposto a quello della ‘ndrangheta, il contagio della legalità, una specie di contagio della verità.