carlo alberto dalla chiesadi Nicola Tranfaglia

Quando ho visto su alcuni quotidiani di oggi[1] (non tutti, quelli vicini al centro-destra – per non smentirsi mai – non ne hanno parlato) gli articoli sul ritrovamento della borsa di Carlo Alberto dalla Chiesa ho subito tratto alcune deduzioni  rispetto alle circostanze e al momento storico (il 1982) in cui avvenne l’assassinio del generale prefetto di Palermo dopo i cento giorni della sua disperata missione in Sicilia.  Ho letto anche, con la necessaria attenzione,  l’intervista fatta all’amico Nando dalla Chiesa, figlio del generale e sociologo dell’Università statale di Milano che ha appena pubblicato un ottimo saggio sull’impresa mafiosa (L’impresa mafiosa. Tra capitalismo violento e controllo sociale. Cavallotti University Press, 2012) oltre a tutti gli altri pubblicati in passato, tra i quali uno in particolare sulle convergenze che caratterizzano i rapporti tra la mafia e la classe politica nel settantennio repubblicano che giudico ormai un classico dei saggi sul fenomeno mafioso (La convergenza. Mafia e politica nella seconda repubblica (Melampo 2010). Ebbene Nando  dalla Chiesa afferma – e mi sembra impossibile smentire la sua testimonianza – che l’obbiettivo principale perseguito dagli agenti di polizia prima e dai carabinieri poi non sia stato quello di distruggere le carte custodite sia nella cassa forte di villa Pajno (svuotata quel giorno e di cui è stata ritrovata  la chiave in un cassetto una settimana dopo ) quanto quello di impossessarsi delle carte contenute nell’auto A112 in cui il generale-prefetto venne ucciso con la moglie Emanuela Setti Carraro e che in queste carte c’erano elementi importanti di un’indagine che il funzionario stava svolgendo da alcune settimane e che riguardava politici importanti a Roma e a Palermo. Nando dalla Chiesa ricorda l’atmosfera terribile che contrassegnò la tragica morte del padre  e  i funerali celebrati in gran fetta il giorno dopo e l’ansia di congedare i familiari tanto da farli andar via il giorno dopo, “Hanno voluto che noi ce ne andassimo subito, lontano dalla Sicilia – ha ricordato il sociologo – per agire indisturbati”.  Tutto è ritornato improvvisamente attuale da quando un carabiniere, anonimo, ha inviato al sostituto procuratore di Palermo Nino Di Matteo, impegnato nel terzo processo per la strage di via D’Amelio, dodici pagine in cui indica la matrice non solo mafiosa ma anche politica del delitto. Nando dalla Chiesa è stato interrogato dalla procura e ha potuto soltanto  confermare due elementi importanti: che suo padre a Palermo stava compiendo indagini sui rapporti tra mafia e politica; che quelle carte trovate nell’auto e sotto il sedile dell’A112 riguardavano quella materia di indagine e che sarebbero arrivate ai giudici  Falcone e Borsellino impegnati già allora nella preparazione del maxiprocesso contro Cosa Nostra. E sono proprio questi elementi a far pensare che l’ipotesi del figlio Nando sia fondata giacché al potere di Cosa Nostra in quel momento c’erano i corleonesi che si stavano muovendo per l’assalto al cuore dello Stato contro i magistrati nemici e i funzionari dello Stato altrettanto pericolosi. E’ questo il punto centrale che emerge dal ritrovamento della borsa sia pure vuota e c’è forse da sperare che il processo di Palermo possa ancora far luce sull’uccisione di Borsellino ma anche sul misterioso assassinio di dalla Chiesa.

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