di Nicola Tranfaglia
Viviamo in un paese nel quale c’è una coabitazione tra mafia e politica che dura da un tempo immemorabile. Non dall’Unità ma come ormai riconoscono i pochi studiosi che dedicano il loro lavoro al fenomeno mafioso (le cattedre di Storia della Mafia in Italia sono quattro o cinque e in gran parte fuori organico, attraverso un contratto e appena possono le smantellano,al Sud come al Nord) ma dai primi anni dell’Ottocento.
Giulio Andreotti, morto ieri a 94 anni,sette volte presidente del Consiglio,infinite volte ministro di quasi tutti i dicasteri, è stato nel Novecento un interprete riconosciuto di questa costante coabitazione. I magistrati hanno chiesto 27 volte un’autorizzazione a procedere per il deputato, prima, e il senatore Andreotti.
Soltanto due studiosi nel settantennio repubblicano hanno osato scrivere un libro sul divo Andreotti: chi scrive nel 2001 con La sentenza Andreotti apparsa da Garzanti nel 2001 e Salvatore Lupo, sempre in quegli anni, con un piccolo libro che parla del processo che la procura di Palermo intentò al senatore dal 1993 al 2004.
Qualche mese fa un giornalista, Michele Gambino, ha scritto per l’editore Manni(2013) di Lecce un saggio intitolato Il papa nero. Antibiografia del divo Giulio che merita di essere letto. Basta così ed è una prova evidente del potere che fino all’ultimo ha connotato l’esistenza dell’uomo politico democristiano.
Il processo,come non tutti sanno in Italia per la cortina fumogena che i media hanno edificato intorno al senatore, si è concluso con una pronuncia chiara ma per certi aspetti contraddittoria: la corte di Cassazione ha detto alla fine che Andreotti ha collaborato con Cosa Nostra fino al 1980 ma i reati compiuti fino a quella data sono ormai prescritti e successivamente l’uomo politico romano non ha più collaborato. Non ha spiegato perché dopo quella data la collaborazione è finita visto che la carriera politica del divo Giulio è proseguita fino al 1993 ed oltre ma questo è un mistero che i giudici non hanno svelato. Uno dei tanti misteri italiani.
Resta il fatto che, nelle sentenze definitive, non si mette in dubbio affatto che Andreotti sia stato vicino a Cosa Nostra e qui mi limito a riportare quello che i giudici hanno accertato senza dubbio alcuno.
Nella motivazione della sentenza di appello,confermata dalla Suprema Corte, si legge: “Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione.
E la Corte di Cassazione nella sentenza finale ha sentito l’esigenza di affermare con chiarezza: “La corte palermitana non si è limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con i suoi referenti siciliani individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l’imputato compartecipe dei rapporti sicuramente intrattenuti da costoro con Cosa Nostra, rapporti che sarebbero stati dall’imputato coltivati anche personalmente (con Badalamenti e soprattutto con Bontate) e che sarebbero stati per lui forieri di qualche vantaggio elettorale.”