lea garofalo

Anche giovedì, 16 maggio, la corte d’Assise d’appello era gremita dai giovani volti degli studenti liceali e dei ragazzi di Libera. Fin dall’inizio hanno voluto stare accanto a Denise Cosco, la figlia di Lea Garofalo, la donna rapita all’arco della pace a Milano, uccisa e bruciata in un capannone alle porte del capoluogo lombardo. Assente invece Carlo Cosco, l’ex convivente della donna, che ha scelto di non presentarsi in aula durante le arringhe degli avvocati di Giuseppe Cosco e Carmine Venturino, due dei sei coimputati dell’omicidio della donna.

La memoria difensiva di Maira Cacucci, avvocato di Giuseppe Cosco, ha voluto dimostrare l’estraneità dei fatti dell’assistito, focalizzandosi sull’inattendibilità del teste Salvatore Sorrentino, sull’assenza di contatti, dimostrata dalle utenze telefoniche, dal 19 novembre al 24 novembre 2009 tra Giuseppe e i coimputati, e sui cattivi rapporti che intercorrevano tra Giuseppe Cosco e parte della sua famiglia. Nonostante la mancanza di rapporti tra Giuseppe, Vito Cosco e la madre, esiste però, una relazione tra Giuseppe e Carlo, legati dal traffico di stupefacenti, secondo le dichiarazioni di Venturino. E’ sufficiente questo, per l’avvocato Cacucci, per poter affermare che si “ha la certezza matematica dell’estraneità ai fatti” e che pertanto si può “chiedere con forza l’assoluzione del suo assistito”, così come ha richiesto il Pubblico Ministero nella scorsa udienza.

Destino opposto invece per Carmine Venturino, uno dei complici dell’omicidio di Lea Garofalo, oggi collaboratore di giustizia, per il quale il Pm Marcello Tatangelo ha chiesto 27 anni di carcere  senza le attenuanti speciali, previste dall’art.8 della legge 203/9. L’avvocato Floriana Maris ha voluto concentrarsi su due presupposti: la dissociazione del suo assistito e il contributo che ha dato alla ricostruzione dei fatti e all’individuazione dei colpevoli, favorendo anche la richiesta di assoluzione per altri due imputati, Massimo Sabatino e Giuseppe Cosco, condannati in primo grado all’ergastolo.

Carmine Venturino ha sì concorso all’omicidio ma non ha partecipato ad alcuna fase dell’organizzazione, ha sottolineato l’avvocatessa, perché “ha soltanto obbedito ed è vittima di una cultura mafiosa che ha respirato sin da ragazzo”. Secondo la Maris, l’omicidio è stato commesso con modalità mafiosa, “un classico omicidio di lupara bianca”, perché Lea Garofalo aveva violato le rigide regole della ‘ndrangheta, abbandonando il marito in carcere ed essendo una testimone di giustizia. Per questo la richiesta del minimo della pena e delle attenuanti speciali della collaborazione previste per chi ha fatto parte di organizzazioni di stampo mafioso; riprendendo alcune sentenze relative al primo tentato omicidio subito da Lea Garofalo quando viveva a Campobasso, in cui si accerta la contiguità dei Cosco alla ‘ndrangheta, in particolare alla cosca di Petilia Policastro, l’avvocato Maris dimostra che Carmine Venturino ha scelto di collaborare con la giustizia e con lo Stato italiano.

Una collaborazione senza la quale, oggi non si saprebbe parte della verità e senza la quale non si sarebbe mai trovato il corpo della giovane donna. Ma soprattutto una collaborazione che, se incentivata come pratica, potrebbe favorire il contrasto alle associazioni mafiose.

È convocata per martedì 21 maggio la prossima e ultima udienza che si prevede lunga e intensa: la sentenza di secondo grado dovrebbe arrivare solo in tarda serata.

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