La quarta udienza di secondo grado di giudizio per l’omicidio di Lea Garofalo si è aperta martedì 16 aprile 2013 con la testimonianza dei consulenti di medicina legale dell’università degli Studi di Milano. I periti hanno riportato alla Corte i risultati dei resti rinvenuti nel tombino indicato dal collaboratore di giustizia Carmine Venturino, tra via Canonica e Via Lomazzo; risultati che – nonostante le difficoltà ad identificare la donna – «sono coerenti con i racconti del Venturino», afferma il perito. Il cadavere, infatti, bruciato ad altissime temperature, i cui resti sono stati meccanicamente frammentati in seguito alla combustione, è stato identificato grazie alle protesi dentarie comparate ad una lastra trovata dalla figlia Denise tra gli oggetti della madre.
Dai dati scientifici dei consulenti tecnici si è poi passati all’interrogatorio di Carlo Cosco da parte del suo avvocato. Una difesa, quella di Daniele Sussman Steinberg, interamente costruita sull’amore di Carlo Cosco per la figlia Denise, sui difficili anni passati separati quando lui era in carcere, sulle sue preoccupazioni derivate dalla decisione di Lea Garofalo, all’epoca ventunenne, di trasferirsi a Bergamo con la figlia di quattro anni. Solo paure e ansie per la figlia Denise dunque. Tanto che, per punire la madre di sua figlia per un litigio con la suocera, Carlo Cosco ordina a Massimo Sabatino di recarsi a Campobasso – dove all’epoca vivevano le donne – per picchiare Lea Garofalo. «Non la volevo assolutamente uccidere, ma solo darle due schiaffi, per la storia di mia madre», chiosa l’imputato.
L’imputato rivela poi i dettaglia dell’omicidio, indicando nelle ragioni che lo hanno portato a compiere quel gesto solo un raptus di follia e rabbia cieca scaturita dalle minacce di Lea di non fargli vedere più la figlia. «Mi ha detto brutte parole; che non mi faceva vedere mia figlia e queste cose qua; allora l’ho presa e l’ho sbattuta a terra. Se non mi sono consegnato subito è stato per paura di perdere mia figlia; il mio errore è stato quello». Raptus di follia e non omicidio premeditato collegato alla cultura mafiosa. «E’ vero che fa parte di un’associazione criminale di stampo mafioso chiamata ‘ndrangheta?», domanda Steiner all’imputato, «No, assolutamente no, mai fatto parte di una ‘ndrina».
Con questo tentativo, la difesa ha così cercato di mostrare sotto una luce diversa, legata a dinamiche di amore tra padre e figlia, l’omicidio di Lea Garofalo. Nello stesso tempo viene screditata anche la deposizione di Carmine Venturino, che non è fondamentale solo per questo processo, ma potrebbe far aprire anche altri procedimenti penali, legati agli affari della famiglia Cosco. Insomma, il solito delitto passionale. La ‘ndrangheta? No, di quella nessuno fa parte.