aula_tribunaleRinfrescare un po’ la memoria non fa mai male. Soprattutto quando si parla di collaboratori di giustizia. Premettiamo fin da subito che la figura dei collaboratori (e dei testimoni) di giustizia è fondamentale e indispensabile. Grazie alla loro testimonianza si può venire a conoscenza di segreti ed episodi interni all’organizzazione che altrimenti non potremmo sapere; è bene dunque tutelarla e incoraggiarla con maggiori strumenti legislativi che proteggano il collaboratore, la sua famiglia e che favoriscano il pentitismo. Tuttavia bisogna ricordare che “il pentito”, per quanto ritenuto credibile e affidabile da procure e magistrati può mentire su alcune vicende, può tornare a sbagliare o addirittura uccidere. Pertanto mitizzare il collaboratore, osannarlo ed innalzarlo sull’altare dell’antimafia è alquanto incauto. Ma facciamo degli esempi concreti.

Baldassare Di Maggio, detto “Balduccio”, è il mafioso che ha descritto il bacio tra Giulio Andreotti e Totò Riina e che ha reso possibile l’arresto del numero uno di Cosa Nostra il 15 gennaio 1993. Ritenuto credibile dalla procura di Palermo e dall’allora capo Gian Carlo Caselli, Di Maggio ha continuato ad uccidere dopo essere diventato collaboratore di giustizia: nel 1996, per esempio, riesce a fuggire dalla custodia delle forze dell’ordine ed uccide Carfi , uomo del boss Giovanni Brusca, a San Giuseppe Jato Giuseppe.

Gaspare Mutolo, detto “il barone”, boss del mandamento di Partanna e Mondello, ex autista di Totò Riina e killer di fiducia del boss Saro Riccobono, alla fine del 1991 chiede di parlare con il giudice Giovanni Falcone ma la richiesta non viene accolta perché lavora presso il Ministero di Grazia e di Giustizia. Dopo la strage di Capaci, Mutolo domanda al procuratore di Firenze Pierluigi Vigna di poter parlare con Paolo Borsellino ma il procuratore di Palermo Pietro Giammanco ignora la richiesta di Mutolo e affida il fascicolo ad altri magistrati, l’aggiunto Vittorio Aliquò, i sostituti Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Dopo uno scontro durissimo tra il capo dell’ufficio e Borsellino, Mutolo – l’ultimo collaboratore a vedere in vita il magistrato – riesce ad incontrarlo e, anche in seguito alla morte del giudice, fa importanti rivelazioni sui rappresentanti delle istituzioni collusi con Cosa Nostra tra cui Bruno Contrada, ex numero due del Sisde e il giudice Domenico Signorino (pubblico ministero del maxi processo di cui ha parlato Gaspare Mutolo, morto poi suicida). Nonostante ciò, come riportato nel libro “La mafia non lascia tempo”, lui stesso ammette di aver a volte mentito ai magistrati. Ad esempio afferma di non conoscere persone con cui invece aveva rapporti, come il trafficante Koh Bak Kin (pag. 111); oppure aggrava le accuse di complicità in omicidi o atti dinamitardi nei confronti di Ciccio Di Trapani (pag. 153), verso cui aveva un’antipatia personale; o ancora si attribuisce la colpa di omicidi che non aveva commesso (pag. 180) al fine di mostrare a modo suo la propria fiducia nello Stato e convincere altri a collaborare, facendo scattare a suo carico una denuncia per autocalunnia.

Rocco Varacalli é un altro esempio. Giudicato attendibile da almeno due sentenze, è il collaboratore chiave dell’inchiesta Minotauro. La sua “…sincera, spontanea e genuina…” collaborazione ha spedito in carcere decine e decine di ‘ndranghetisti delle locali piemontesi, mettendo a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia. Nonostante questo, il pentimento non si è tradotto nell’abbandono di uno stile di vita spregiudicato. Infatti, dopo aver abbandonato il programma di protezione, Varacalli é stato accusato di omicidio, furto, rapina e traffico di stupefacenti. Ondeggia tra collaborazione e ripicca nei confronti della Giustizia, da lui ritenuta colpevole di non aver interpretato la collaborazione come un indulto tombale dei suoi crimini.

Questi esempi dimostrano qualcosa? Sì. Attestano che i collaboratori, benché ritenuti attendibili da diverse procure e magistrati, non possono essere considerati profeti della verità; esistono sfumature di grigio, ricordi offuscati, errori in buona fede, smemoratezze, amnesie all’interno delle dichiarazioni rilasciate. Esaltare questi uomini e celebrarli è alquanto incauto. Vi è il rischio di trasformarli in simboli, capovolgendo i ruoli tra chi è vittima e chi è carnefice.