di Umberto Santino (Centro Impastato)
Le polemiche delle settimane scorse tra il prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, alcuni magistrati e la presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, al di là di alcuni aspetti particolari ma non marginali, è indice delle difficoltà con cui deve fare i conti la strategia antimafia in uno dei suoi punti nodali: la confisca dei beni, e in particolare delle imprese dei mafiosi, e il loro riuso.
Stando alla legislazione vigente, in gran parte esemplata sull’Organized Crime Control Act (OCCA) degli Stati Uniti, un’impresa si può definire mafiosa se presenta uno di questi aspetti o li vede compresenti: il titolare è un indiziato mafioso o un suo prestanome, il capitale è di provenienza illecita, la concorrenza è svolta con la minaccia o l’uso della violenza.
Una volta confiscata, un’impresa con queste caratteristiche viene a perderle tutte ma rimane un problema certamente non secondario: che fine faranno i lavoratori?
La CGIL l’anno scorso ha presentato un progetto di legge di iniziativa popolare che prevede una serie di misure per far fronte ai problemi che pongono le imprese confiscate, dall’istituzione di un ufficio Attività produttive e sindacali presso l’Agenzia dei beni confiscati, di tavoli permanenti presso le prefetture, alle misure in favore dei lavoratori, all’istituzione di un fondo, alla destinazione a fini sociali delle aziende. Quest’ultimo punto mi sembra di particolare interesse: pensare che le imprese che hanno possibilità di continuare la loro attività produttiva possano essere immesse sul mercato senza porsi troppi problemi, vuol dire avere una visione ideologica e astratta del mercato che, già prima e ancor più in tempi di globalizzazione, non è il libero incontro tra domanda e offerta in un terreno neutro o bendisposto, ma uno spazio dominato dall’esaltazione del profitto, dalla ricerca del lavoro a basso costo, senza diritti, e con il ricatto ai lavoratori dei paesi che hanno visto lo svilupparsi delle lotte operaie, a cui si chiede l’archiviazione delle conquiste più significative, a cominciare dalla decurtazione dei salari e da una flessibilità ad libitum dei datori di lavoro. Così si spiega il ritorno a una logica da padroni delle ferriere, la delocalizzazione delle imprese, la privatizzazione dei guadagni e il ricorso al pubblico quando c’è da accollarsi le perdite. Marchionne è il campione, beffardo e amorale, del capitalismo globalizzato, che prima chiude Termini Imerese (e ancora si è alla ricerca di una soluzione e continua la passerella di venditori di fumo) e poi abbandona l’Italia, dopo averne ricevuto aiuti di ogni genere.
Non so che fine abbia fatto il disegno di legge di iniziativa popolare della CGIL, probabilmente arenatosi nelle secche istituzionali; quel che si può dire è che le esperienze di questi ultimi anni dimostrano che è possibile creare e tenere in piedi imprese che possono definirsi antimafiose, che praticano il principio della responsabilità sociale d’impresa, sono gestite in forma collegiale, si raccordano con una tradizione storica, intitolandosi a protagonisti della mobilitazione antimafia, da Placido Rizzotto a Pio La Torre, a Peppino Impastato, si inseriscono in un progetto di antimafia sociale, che è la strada più conveniente e più pregna di futuro se si vuole creare un’antimafia di massa, e non episodica ed elitaria. Queste esperienze non sono molte, vivono difficoltà che bisogna superare quotidianamente, dall’accesso al credito alle minacce e ai danneggiamenti ad opera dei mafiosi, ma indicano una strada.
La polemica, se si limita a volare basso, con reciproche accuse (aver favorito la formazione di una casta di liquidatori giudiziari, aver nominato personaggi raccomandati ecc.) e con la perpetuazione di ruoli già determinati, fa solo danno. Può essere utile se ripropone un problema che è di fondamentale importanza se si vuole rimettere con i piedi per terra una strategia su cui si giocano i destini dell’antimafia, sia a livello istituzionale che sociale. L’agenzia dei beni confiscati o è messa in condizione di funzionare o non serve a nulla, la logica non può essere quella notarile della messa in liquidazione ma della creazione di imprese sociali, la lievitazione delle confische deve andare di pari passo con una strategia di riuso, altrimenti rischia di avallare stereotipi del tipo:” la mafia dà da vivere, l’antimafia produce disoccupazione”. Sapere che si gioca una partita decisiva può aiutare a portare la discussione sui problemi reali, coinvolgendo tutto lo schieramento antimafia, e a trovare soluzioni adeguate, al di fuori di schemi preconcetti e di arroccamenti che giocano solo a dividere, in un contesto troppo spesso ospitale per contrapposizioni e protagonismi.
(Pubblicato su Repubblica Palermo del 26 febbraio 2014, con il titolo: All’antimafia non basta confiscare i beni dei boss.)