C’erano una volta in Sud America i grandi cartelli della droga. La nostra storia inizia il 2 dicembre 1993, in Colombia. Asserragliato sul tetto di casa sua c’è un uomo che emana gli ultimi sospiri di resistenza sotto il fuoco della polizia. È il giorno conclusivo di una caccia all’uomo che coinvolge la Drug Enforcement Agency (Dea), l’organo antinarcotici del governo degli Stati Uniti, il Bloque de Buscada, un’unità speciale della polizia, e criminali colombiani. Quel giorno è l’epilogo di una leggenda; muore Pablo Escobar, l’uomo che ancora oggi incarna il modello di narcotrafficante sudamericano.
È lui il capo del Cartello di Medellin che assieme al Cartello di Cali domina la scena nazionale, regionale e internazionale del narcotraffico. La loro è un’egemonia iniziata negli anni ’80 che ha reso la situazione in Colombia incontrollabile: l’economia illegale coinvolge ampie fette della popolazione, il potere dei narcos è troppo elevato e infiltrato nella politica, la Colombia rischia di diventare un narcostato. Nel mentre le strade statunitensi sono invase dalla cocaina proveniente da quei posti. Il governo americano non tollera più questo scenario così supporta gli sforzi di Bogotà per ridurre le coltivazioni ed eliminare i principali leader. Escobar è il primo a cadere, poco dopo, nel 1996, anche i fratelli Orejuela, suoi nemici capi del cartello di Cali, vengono arrestati. Il narcotraffico subisce un duro colpo ma non si arresta. Gli spazi aperti lasciati dalla fine dei vecchi boss vengono presto colmati da nuove figure.
Il Cartello Valle del Norte aumenta la sua presenza ma qualcos’altro si muove. Nascono i cartelitos, piccole organizzazioni dedite al traffico di droga. La logica che ci sta dietro è una revisione delle strutture. I criminali si sono accorti che i grandi cartelli scontavano la loro dimensione in termini di visibilità alle forze dell’ordine. Si apre il processo di miniaturizzazione. Le organizzazioni riducono la loro grandezza diventando meno individuabili con facilità. Ciò però comporta una perdita della loro capacità di gestire interamente la filiera del narcotraffico. Infatti, se prima Escobar e i fratelli Orejuela erano in grado di controllare tutto il processo della droga dalla coltivazione alla vendita, ora le nuove strutture non dispongono più delle risorse e degli uomini necessari per farlo. Si vengono così a creare dei network tra diverse compagini criminali, non solo colombiane. Infatti, la fine dello strapotere dei narcos di Cali e Medellin nell’interno continente sudamericano offre la possibilità alle organizzazioni in precedenza gregarie di espandersi e a nuove di nascere. Inoltre, l’attenzione alla Colombia ha reso difficile la gestione delle coltivazioni che vanno così alla ricerca di altri punti dove espandersi. Il Perù e la Bolivia, già produttori storici, aumentano i quantitativi di cocaina prodotta. La droga si sposta verso il sud del continente. Non solo per scappare ma anche perché nel frattempo aumenta il consumo di stupefacenti nella regione, in Europa, nella zona ex-sovietica e in Asia. I porti di Argentina, Cile e Brasile, meno controllati, diventano i punti di partenza della merce.
L’endemica debolezza degli Stati sudamericani, la presenza di zone geograficamente difficili da controllare – si pensi alla foresta amazzonica o alle Ande -, la diffusa povertà e la corruzione di certo non aiutano. Così, le recenti opportunità si sommano alle difficoltà regionali aprendo la via a diverse associazioni criminali. Nei barrios – baraccopoli – argentine la criminalità inizia ad organizzarsi, lo stesso avviene in tutti gli altri Stati. È in questo contesto che i comandos brasiliani vedono aumentare i loro profitti e la loro potenza. Arroccati nelle favelas intrattengono una vera e propria guerra con il governo di Brasilia grazie alle armi comprate con i soldi della droga. Anche le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e Sendero Luminoso in Perù, due guerriglie di sinistra, sembrano orientarsi sempre più alla ricerca dei profitti derivanti dal traffico di stupefacenti per sostenersi. E, chiaramente, un Paese già ad alto tasso di violenza come il Venezuela non vede diminuire la brutalità dei narcos.
Il continente sudamericano vive oggi un’espansione della criminalità organizzata alquanto preoccupante. In questo contesto organizzazioni straniere fanno registrare la loro presenza alla caccia di una delle maggiori fonti di reddito dell’economia illegale. La ‘ndrangheta pare aver scalzato Cosa Nostra ed è sempre più presente nel continente. Gruppi cinesi e slavi si sono lentamente affacciati da quelle parti. La comunità internazionale deve riflettere seriamente su come rapportarsi al problema. Le politiche esclusivamente repressive hanno dimostrato di essere fallimentari spostando le preoccupazioni altrove. Voci di un approccio differente che consideri la droga prevalentemente come un problema sanitario e non criminale e che contemplino politiche di riduzione del danno oggi arrivano anche da esponenti istituzionali, come l’ex presidente brasiliano Henrique Fernando Cardoso, che hanno fatto del contrasto repressivo la loro bandiera. Un Paese sta provando a reagire in questa direzione: l’Uruguay. Il governo ha approvato un progetto di legalizzazione della marijuana nell’ottica di un maggior controllo dei consumatori e per ridurre gli introiti dei criminali che riforniscono il Paese o che lo usano come punto di passaggio della sostanza proveniente dal Paraguay. Il tempo ci dirà se Mujica vincerà la sua scommessa ma a livello concettuale la strada appare quella giusta.