di Luca Bonzanni

lecco

Vent’anni dopo, è un’altra notte di San Vito. Due decenni dopo dagli arresti scattati con l’operazione del 1994, «I fiori della notte di San Vito», destinata a colpire il clan Mazzaferro, lo scorso 18 novembre, con l’operazione «Insubria», gli occhi dei magistrati antimafia si sono posati nuovamente sulla zona tra Como e Lecco, rivelando per l’ennesima volta la profondità della presenza mafiosa al nord. Quaranta arresti, tre «locali» di ‘ndrangheta colpiti, riti di affiliazione filmati, intercettazioni che sono fotografie nitidissime di come i meccanismi della ‘ndrangheta possano riprodursi perfettamente anche in Lombardia.

Lecco, terra di criminalità organizzata

Per il lecchese, in particolare, è la riprova di quanto sia radicata la presenza della criminalità organizzata. L’ultimo precedente è fresco: solo lo scorso aprile, infatti, finivano in manette dieci persone nell’ambito dell’operazione «Metastasi», tra cui Mario Trovato (fratello di Franco Coco Trovato), Ernesto Palermo (consigliere comunale nel capoluogo) e Marco Rusconi (sindaco di Valmadrera). Prima ancora, nel 2006, l’inchiesta «Oversize», e soprattutto, nel 1993, «Wall Street», la storica operazione condotta da Armando Spataro che inflisse un durissimo colpo ai clan Trovato, Flachi e Batti. Erano considerati gli autentici padroni della zona che da Milano si estende al lecchese, tra ingenti traffici di droga e sanguinosissime faide. Questa volta, però, non è la città manzoniana a finire sotto la lente d’ingrandimento. L’epicentro degli affari è Caloziocorte, centro di quindicimila abitanti, a smentire nuovamente il luogo comune secondo cui la mafia sia concentrata solo nelle grandi città. Tutt’altro, i piccoli e medi comuni restano i prediletti: cittadina all’apparenza come tante altre eppure con un profondo legame con la criminalità organizzata, a Calolziocorte (comune fino al 1992 appartenente alla provincia di Bergamo, poi «ceduto» alla costituenda provincia di Lecco) opera infatti uno dei locali di ‘ndrangheta più longevi del Settentrione.

Il caso di Calolziocorte

EcoBg arresto AlbertiMa perché, innanzitutto, a Calolziocorte? Tornano qui ciclici quei tanti fattori che hanno permesso la colonizzazione del nord da parte delle organizzazioni mafiose. In primo luogo, i legami di corregionalità e di compaesanità, come indicato già nella fondamentale relazione di Carlo Smuraglia alla Commissione parlamentare antimafia nel 1994. Un aspetto, questo, che non può essere analizzato senza far riferimento al soggiorno obbligato, istituto giudiziario che anziché contrastare il fenomeno mafioso – com’era nell’intenzione del legislatore – ne ha facilitato l’espansione. Così racconta un colorito affresco apparso sul Giornale di Bergamo nel 1974: «È un grosso centro, Calolziocorte, e molto importante. Geograficamente è in una posizione ideale […]. Lo definiscono uno dei capisaldi della malavita organizzata bergamasca. “A Calolziocorte si nascondono pregiudicati di tutte le risme”, ci dice un ufficiale dei carabinieri». La posizione ideale, appunto: al centro tra Milano, Como, Lecco e Bergamo, e anche poco distante dalla Svizzera. Il primo campanello d’allarme per Calolziocorte è molto rumoroso. Il 20 dicembre 1975, infatti, nella frazione di Rossino, viene arrestato Gerlando Alberti, importantissimo boss di Cosa nostra, sodale di Luciano Liggio. Nella cittadina della Val San Martino, infatti, «U paccarè» ha trovato rifugio presso Francesco Mancuso, ovvero il suo consuocero; ancora oggi, a quasi quarant’anni di distanza, qualche anziano ricorda Alberti seduto all’esterno del ristorante-albergo «Orologio», indisturbato nel sorseggiare il caffè e controllare il via-vai.

Un locale di alto lignaggio

Insubria occ screenshotMa è la ‘ndrangheta a condizionare la vita di Calolziocorte. L’8 settembre 1975 si ha l’apertura del locale, che viene presentato come da tradizione a Polsi, al santuario della Madonna della Montagna, l’appuntamento che ogni anno riunisce i capi di tutte le ‘ndrine. È a San Luca, appunto, che ci si deve rivolgere per l’apertura di un nuovo locale. E quello di Calolzio – «locale di alto lignaggio», così lo definiscono gli inquirenti – è uno dei più longevi operanti nel Settentrione. A capo del locale, al momento della costituzione, c’è Raffaele Iaconis. L’anno seguente, il 1976, è peraltro un anno cruciale per i locali della Lombardia, perché si decide di creare la «camera di controllo» che negli anni viene perfezionata da Giuseppe Mazzaferro. È quella struttura sovraordinata ai locali che tenta di dare un coordinamento all’azione della ‘ndrangheta in terra lombarda; è, in un certo senso, l’antenato della «Lombardia», la sovrastruttura dei locali cui si risale grazie alle operazioni «Nord Sud» prima e «Infinito» poi. Non a caso, al «battesimo» del locale di Calolziocorte partecipa fra gli altri Pino Neri, che, dopo l’uccisione di Carmelo Novella nel 2008, per un anno è il reggente della «Lombardia».

L’importanza della ritualità e della storia

Il ricordo della cerimonia di Polsi è tramandato oralmente sino ai giorni nostri, contornato quasi dal tipico alone mistico e mitico che va a rafforzare i legami di appartenenza e solidarietà all’interno del gruppo. È un aspetto decisivo, così come la «reputazione» del locale, esaltata frequentemente dai membri del clan: quella di Calolziocorte è una struttura che è sempre stata tenuta nella giusta considerazione da parte delle gerarchie criminali per via del comportamento «irreprensibile» dei suoi componenti, tanto che il locale di Giffone – ovvero la cosca reggina cui è strettamente legato – non ha mai avuto nulla da recriminare. Gli affiliati calolziesi, infatti, hanno sempre agito secondo le «prescrizioni sociali» della ‘ndrangheta, ovvero come è stato loro insegnato. «Calolzio ha tutto! Non pecca di presunzione, non pecca di abusi, non pecca di niente! Non dà la possibilità di lamentarsi», esclama Antonino Mercuri, l’ultimo capo locale. Quando infatti un affiliato, è il caso di Francesco Petrolo, agisce d’iniziativa senza consultarsi con alcuno (Petrolo aspirava a diventare capo locale), questo viene allontanato temporaneamente dalla «vita sociale» della struttura.
La vicenda di Calolziocorte è appunto interessante non tanto per lo spessore delle attività criminali, quanto per la riproduzione di dinamiche sociali che mostrano perfettamente la profondità del fenomeno. Ricorrono profili come quello di Domenico Lamanna, autorevole figura storica del locale, di cui è stato co-fondatore negli Anni settanta; in tempi recenti la sua funzione è meno «operativa», ma resta imprescindibile per le sue doti riconosciute di «saggezza», da cui deriva una forte influenza sulle decisioni prese dai vertici della struttura, venendo spesso citato come ineludibile punto di riferimento per il gruppo criminale.
Un ultimo dato riferito alla sfera «sociale» della ‘ndrangheta risulta quanto mai preoccupante. Tra i membri del clan figura infatti – ed è la prima volta per le indagini sulla ‘ndrangheta in Lombardia – un minorenne, a cui è conferita una «dote» e attorno alla cui «iniziazione» si scatena un intenso dibattito tra gli affiliati, che pretendono un assoluto rispetto delle tradizionali regole della ‘ndrangheta. Un episodio che non può che allarmare rispetto alla «presa» che la criminalità organizzata esercita sui giovani anche a certe latitudini e sulla difficoltà di chi – poco più che adolescente – cresce nelle famiglie della malavita: l’affiliazione del giovanissimo – sedicenne al momento del conferimento della «dote» – è infatti proposta con insistenza dal padre, che coinvolge nel gruppo anche un nipote ventunenne.

I rapporti tra i locali di Calolziocorte e Lecco

Un’analisi delle vicende calolziesi, però, non può non comprendere un richiamo al locale di Lecco e soprattutto al suo boss, Franco Coco Trovato. Il clan Trovato, infatti, è per molti anni padrone della zona che dal lecchese si estende sino a Milano, un impero criminale che riempie le strade di droga e sangue. Per parecchio tempo, Franco Coco Trovato è al corrente di ciò che avviene a Calolziocorte; si svolgono riunioni ai ristoranti «Il Portico» e «Wall Street», i locali di Coco Trovato che fungono da quartier generale, e anche Pino Neri garantisce l’osservanza delle regole da parte del locale calolziese, in una logica di unitarietà degli «avamposti» della ‘ndrangheta al nord. La cittadina, peraltro, è spesso indicata come una roccaforte del clan Trovato. Interessante è poi sottolineare come nel locale di Calolziocorte figuri oggi Giovanni Marinaro, già elemento di spicco del clan Trovato per quanto riguarda il traffico di droga, e soprattutto profondamente legato al boss per averne sposato una nipote. Qualche elemento di screzio, tuttavia, recentemente non manca. È ciò che lamenta – come si evince dall’operazione «Metastasi»Giacomo Trovato, rampollo del clan Trovato (è figlio di Mario Trovato, il fratello di Franco): a Calolziocorte, infatti, sarebbero state portate avanti nuove affiliazione senza che lui fosse stato avvisato e senza che vi fosse stata l’autorizzazione di suo padre e di suo zio. Una volta usciti dal carcere, tuttavia, «le cose sarebbero cambiate».

Tra omertà e intimidazioni. Le reazioni e la sfiducia.

Non c’è, nella vicenda calolziese, una diretta pervasività del clan nell’economia legale. Ciò che più impressiona, invece, è la volontà del locale di esercitare la giurisdizione, di condizionare in modo carsico, soffocante la vita della cittadina. Si tratta quindi dell’ennesima dimostrazione che sfata il luogo comune di una mafia «moderna» che si rapporta solo con i colletti bianchi e con gli affari dell’alta finanza. Nel lecchese, invece, ciò che conta è il controllo del territorio.
La reazione della cittadinanza alla notizia dell’operazione «Insubria» segnala quanto sia pesante la cappa di omertà e paura. La Provincia di Lecco, principale quotidiano locale, mette in luce un clima di sfiducia rispetto alla possibilità di sradicare una volta per tutte la ‘ndrangheta: «Qualcuno si dice esterrefatto. Altri, invece, scrollano le spalle e con un sorriso beffardo affermano che rientra tutto nella normalità, perché “è sempre stato così e continuerà ad esserlo”. ”Calolzio è terra di ‘ndrangheta da tanto tempo e neppure operazioni come questa possono eliminare completamente la piaga”». Tra i commercianti, poi, la paura di ritorsioni è alta: conviene allora non esporsi, restare in silenzio. Racconta ancora La Provincia di Lecco: «È un clima guardingo, quello che caratterizza alcuni ambienti della città. In tanti, ieri, pesavano ogni singola parola, nel parlare con i cronisti, proprio per evitare possibili ripercussioni. Il caso emblematico è quello di un artigiano: “Non voglio apparire: non voglio che domani qualcuno di questi suoni alla mia porta, visto che la ‘ndrangheta a Calolzio c’è sempre stata e sempre ci sarà. L’unica è sperare che non ti tocchi”».

 

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