di Luca Bonzanni
«Questa è la mafia: la paura che passa di padre in figlio», scandisce Stefano Accorsi nelle battute iniziali de La nostra terra, film che narra le avventure di una bizzarra cooperativa pugliese sorta sul terreno confiscato al potente boss locale. La realtà, tuttavia, è un’altra storia.
Lo si è capito bene venerdì 22 maggio allo Spazio Melampo di Milano, dove la presentazione di Sulle ginocchia – Pio La Torre, una storia, libro scritto da Franco La Torre, figlio del deputato comunista assassinato dalla mafia il 30 aprile 1982, ha raccontato del coraggio che invece può sconfiggerla, quella paura. Di padre in figlio, a essere tramandati non sono timore e codardia: all’opposto, a passare di generazione in generazione è la volontà di sconfiggere il potere mafioso. E se il personaggio interpretato da Accorsi pronuncia il suo discorso dal palco di un auditorium (vuoto, però), il pomeriggio milanese ha messo al centro chi contrariamente ha scelto il palcoscenico della vita per praticare il proprio impegno.
Preceduta dalla proiezione della pellicola diretta da Giulio Manfredonia, la giornata – inserita nell’ambito della commemorazione per il ventitreesimo anniversario della Strage di Capaci – è proseguita con la conversazione tra Nando dalla Chiesa e Franco La Torre. «Un incontro tra persone con tratti di storia comune, a partire dalle storie paterne», esordisce dalla Chiesa. Già, le storie di Carlo Alberto e Pio: due mondi distanti ma intrecciati, differenti ma convergenti nel medesimo obiettivo. «Entrambi i nostri padri, nell’immaginario collettivo, sono testimoni di un impegno civile grandissimo», risponde Franco La Torre, oggi componente dell’ufficio di Presidenza di Libera, in un «ping pong» delicato ma anche intenso: «Il filo rosso che li accomuna, seppur diversi, è il senso dello stato e del servizio per esso: la loro funzione si è esercitata attraverso il servizio. Mio padre non ha mai anteposto l’ambizione di carriera allo spirito di servizio».
In una sala gremita, la biografia del «padre» dell’associazione a delinquere di stampo mafioso è ripercorsa per intero, dagli studi di gioventù (figlio di contadini, s’iscrisse alla facoltà di ingegneria) alla carcerazione per diciassette mesi tra il 1950 e il 1951 («Lì visse esperienze traumatiche: il distacco dalla giovane moglie, la malattia e la morte della madre con l’ultimo saluto negato, la nascita del figlio durante la prigionia, le angherie dei secondini», ricorda Franco), senza omettere i particolari più duri e difficili, specie nel rapporto col partito. Per il Pci diede la vita, letteralmente; eppure, le delusioni non sono mancate: la freddezza durante l’anno e mezzo all’Ucciardone, il passo indietro dopo le Regionali siciliane del 1967 (in cui si registrò un arretramento rispetto alle recenti Politiche, per questo La Torre si dimise), certe diffidenze rispetto al suo attivismo contro la mafia. E poi, negli anni successivi a quel 30 aprile 1982, i tanti silenzi. Troppi. E poi le assenze, la solitudine. Il disinteresse, addirittura: quello generalizzato di un’intera classe politica, che lo fa per «deficit culturale, per timore, e anche perché può trarre vantaggio dal disinteresse stesso. Ma un’organizzazione politica non può permetterselo», ammonisce con vigore La Torre.
Il rapporto tra padre e figlio è anche fatto di contrasti, differenze, divergenze. «Entrambi abbiamo vissuto gli anni della contestazione», osserva a tal proposito dalla Chiesa, «però i nostri genitori hanno rispettato le nostre scelte. Certo – sorride il sociologo -, poi capita che una sera d’estate tuo padre inizi a sfogliare davanti a te il Codice penale: questo è reato, questo pure, e così via…». «Pio era contrario al mio extraparlamentarismo – rammenta Franco La Torre, in quegli anni simpatizzante di Potere operaio –: tutto però si doveva ricondurre a un confronto aspro ma aperto». Qual era la chiave? «Il binomio responsabilità-libertà», puntualizza il figlio del deputato. Non solo nelle scelte personali, ma anche e soprattutto nella vita pubblica: «L’una senza l’altra non ha ragione di esistere. La libertà si conquista attraverso un impegno, non è mai concessa, e si mantiene tramite il senso di responsabilità».
C’è spazio per un viaggio nella sfera più intima: quella onirica. La introduce dalla Chiesa: «Uno dei progetti di studio che più mi affascina riguarda i sogni dei familiari delle vittime. Qual è quello che ricordi di più?». Domanda non semplice, confessa La Torre con ironia, perché «i sogni o uno se li scrive subito oppure se li dimentica presto». Proseguendo nella discussione, la memoria invece riaffiora: «Periodicamente continuo a sognare mio padre: sono sogni che mi piacciono, non sono drammatici o paurosi. Per un certo periodo ho sognato situazioni in cui non si capiva se mio padre fosse effettivamente morto: tutti intorno non lo sapevano, ma lui lo sapeva, e viceversa».
A volte poi bisogna tirare un bilancio. Ed è difficile, perché bisogna scavare nel profondo, accostando dolori e gioie. Il bilancio di un’esistenza intera, anzi di due esistenze: la propria, certo, e poi quella dei propri padri. «Abbiamo due storie parallele, tra delusioni e delitti, mafia e sogni. Ma entrambi possiamo dirci uomini fortunati», confessa non senza emozione dalla Chiesa, «con una vita felice e cognomi che raccontano di storie esemplari». Uomini soli, titola invece un libro di Attilio Bolzoni in cui le storie di Carlo Alberto e Pio sono ancora una volta accostate, insieme a quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Persone lasciate sole dalle istituzioni, da pezzi del partito, dallo stato. Che qualcosa sia ora cambiato? «Sì, sono felice, perché mio padre era un uomo felice ed è morto da uomo felice», conferma Franco La Torre. Sì, qualcosa è davvero cambiato: i figli di «uomini soli» sono ora «uomini felici». Perché di padre in figlio non si è trasmessa la paura, bensì il coraggio. Il coraggio di continuare una battaglia interrotta troppo presto.