Un corpo. Martoriato. Semi nudo. Gettato accanto all’autostrada dello stato di Puebla. Il sorriso vivo di Anabel Flores Salazar non c’è più. Ma non è più soltanto un delitto di una giornalista messicana. L’ennesimo. È qualcosa di spaventoso, di crudele, di disumano. Nel Messico patria del diritto e della Costituzione moderna, si assiste quotidianamente alla morte. Che viene spesso esibita, come trofeo di caccia, o come monito per l’esercito dei “risparmiati”. Almeno per oggi, perché domani chissà. Anabel, 32 anni, lascia il marito e due figli, uno addirittura neonato. Dopo essere stata prelevata da uomini armati nella sua abitazione lunedì, oggi apprendiamo della sua scomparsa. Con quell’immagine.
Sedici giornalisti dello stato di Veracruz assassinati in sedici anni. Dieci soltanto negli ultimi cinque anni. Secondo l’ultima statistica dell’organizzazione internazionale per la libertà di stampa Article 19, negli ultimi vent’anni nel mondo sono stati uccisi circa 88 giornalisti; dal 2000 ad oggi, in Messico, almeno 86. Cifre inaudite, mai viste. Ma cosa vuol dire fare il giornalista in Messico? Dipende. Dipende cosa scegli di fare. Puoi decidere di non vedere e di rimanere sordo alla realtà circostante. Oppure puoi subire il ricatto dei cartelli della droga, che decidono quali notizie devi pubblicare, e quali invece non devi assolutamente. In questi casi forse sopravvivi. Moralmente affranto, ma riesci a salvaguardare la tua vita. Non tutti riescono a sopportare la paura. E, del resto, come potremmo giudicarli noi? Loro sono completamente soli, senza protezione. Perché in Messico il tasso di corruzione è elevatissimo, il legame tra la classe politica e i cartelli messicani è molto forte, e molto spesso sono le stesse forze di polizia che compiono i crimini, anziché proteggere la popolazione. Nell’attuale situazione rimane solo la gratitudine verso coloro che cercano di essere giornalisti sempre, ricercando sempre la verità. Mostrando i legami e le complicità tra Istituzioni governative e cartelli. Cercando i desaparecidos (secondo fonti non governative sono quasi trentamila dal 2007 a oggi) e dando voce ai loro familiari. Anabel si occupava di cronaca nera, in un territorio controllato pressoché totalmente dal cartello dei Los Zetas, forse il gruppo più feroce e violento che esista nello stato centroamericano.
Il Comitato per la protezione dei giornalisti imputa al governatore dello stato di Veracruz, Javier Duarte de Ochoa, di essere troppo silenzioso a fronte dei numerosi episodi di violenza avvenuti nel suo Stato. Le indagini del procuratore Angel Luis Bravo ruotano attorno ad una gang che era entrata in contatto con la giornalista Salazar nel 2004. La giornalista Sanjuana Martinez lancia il suo grido di allarme: “..Qualcosa deve accadere per farla finita con questa impunità endemica che invita alla ripetizione del delitto. Oggi è toccato ad Anabel, chi segue? Rimarremo aspettando il boia? Abbiamo bisogno di appoggio..”.
Dunque, abbiamo tre possibilità: girarci dall’altra parte, pensando alla nostra Italia e all’Europa che hanno già abbastanza problemi; indignarci oggi, per avere la coscienza pulita domani; oppure fare pressione alla Comunità Internazionale, raccontando queste storie, scrivendo, informando. Questa tragedia impunita continua dovrà fermarsi prima o poi. Non possiamo accettare che dall’altra parte del mondo accada, nel 2016, un nuovo annientamento di civili e innocenti. Il silenzio uccide, forse più dei colpi di pistola e delle teste mozzate. Indigniamoci oggi, domani e dopodomani. Non misuriamo la forza dell’indignazione con la distanza geografica. Altrimenti rimarranno solo quei corpi. Martoriati. Mutilati. E allora a nulla sarà valso il loro sacrificio. Perché noi avremo già sepolto le nostre coscienze.