Il processo di Palermo, che ha visto imputato il sette volte Presidente del Consiglio e ventidue volte Ministro della Repubblica Giulio Andreotti, è considerato il caso esemplare per quanto riguarda le collusioni tra classe politica e Cosa Nostra. La vicenda Andreotti, infatti, oltre ad accertare le relazioni dell’imputato con esponenti di spicco della mafia siciliana, ha reso evidente un certo modo di fare politica “con le mani sporche”, come direbbe il filosofo americano Michael Walzer.
Il processo Andreotti si sviluppò secondo i canonici tre gradi di giudizio. Iniziato nel 1995, dopo che il Senato approvò la richiesta di autorizzazione a procedere, pervenuta nel marzo 1993, si concluse nove anni dopo, il 15 ottobre 2004. La Corte d’Assise di primo grado assolse l’imputato “perché il fatto non sussiste”, nonostante fossero stati accertati in sede giurisdizionale i rapporti tra Andreotti e i cugini mafiosi di Cosa Nostra Nino e Ignazio Salvo, e i rapporti amichevoli tra l’imputato e il banchiere Michele Sindona, mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli ucciso l’11 luglio 1979. Il giudizio di primo grado fu in parte ribaltato dalla sentenza d’Appello, che provò la colpevolezza di Andreotti per il reato di associazione a delinquere fino alla primavera del 1980 (tuttavia il reato nel 2003 fu prescritto in quanto dal 1980 passarono più di ventidue anni e sei mesi), mentre confermò l’assoluzione per quanto riguarda il periodo successivo a tale data. Sia la difesa, sia la Procura di Palermo, fecero ricorso in Cassazione: l’imputato per cancellare quella rilevante colpevolezza, e ottenere nuovamente l’assoluzione come in primo grado; i pubblici ministeri, invece, per confermare la colpevolezza anche per il periodo successivo alla primavera del 1980. La Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004, rigettò entrambi i ricorsi, confermando di fatto la sentenza della Corte d’Appello. In particolare vennero accertati e provati due incontri dell’imputato con l’esponente di spicco di Cosa Nostra Stefano Bontate, tenuti prima e dopo l’omicidio a Palermo del presidente della regione Sicilia (e compagno di partito di Andreotti) Piersanti Mattarella. Nel secondo incontro, Andreotti chiese spiegazioni a Bontate sull’omicidio Mattarella, e il boss lo zittì semplicemente con una frase. Nel libro di Umberto Santino, L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, si legge la risposta di Bontate: “In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la Dc dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare soltanto sui voti del nord, dove votano tutti comunista, accettatevi questi”. Anche in quell’occasione Andreotti decise di non denunciare ciò che era a sua conoscenza in base ai propri rapporti diretti con Cosa Nostra. Rimase per tutta la vita in silenzio, negando ogni accusa, talvolta anche con le più improbabili motivazioni.
Nonostante ciò, il senatore a vita Giulio Andreotti, fu sostenuto e appoggiato, direttamente e indirettamente dalla quasi totalità della classe politica italiana. Tralasciando la piccola ala radicale che ribadiva la colpevolezza di Andreotti, la netta maggioranza di esponenti politici ha garantito, non solo solidarietà al collega, ma anche una riabilitazione politica e morale totale, nonostante la prescrizione per il reato di associazione a delinquere confermata anche dalla Cassazione. Il processo Andreotti ha avuto il merito, non solo di far luce sui rapporti diretti della corrente andreottiana siciliana con Cosa Nostra, ma anche di porre interrogativi importanti al mondo politico, in particolare se sia lecito scendere a patti con la criminalità organizzata. Le reazioni di autorevoli esponenti politici inducono a pensare che questo metodo controverso di svolgere l’attività pubblica sia stato ‘perdonato’ al senatore a vita. Infatti, tutta l’ala centrista, moderata e popolare ha ampiamente espresso massima indulgenza nei confronti di Andreotti. Con le dichiarazioni di solidarietà e di appoggio incondizionato all’imputato per mafia, i politici che dominavano la scena hanno reso lecita l’attività pubblica di un’intera classe dirigente democristiana siciliana. Dall’altra parte, esponenti politici di sinistra non hanno preso una netta posizione di condanna. Tuttavia, si sono anche superati nell’esaltare il comportamento processuale tenuto dall’imputato, “come un signore”. Come se fosse diventato anormale difendersi in aula da accuse così gravi. D’altra parte, il più acceso indiretto sostenitore era stato Emanuele Macaluso, dirigente di spicco del vecchio Partito Comunista Italiano. Macaluso dedicò molte pagine alla vicenda Andreotti, e concluse le sue analisi affermando che la colpa di Andreotti fu di aver accettato il «quieto vivere», che le sue responsabilità sono quelle, politiche, di aver creato in Sicilia un blocco di potere che inglobava anche la mafia. Di fronte al problema etico-politico emerso dal processo Andreotti, la classe dirigente abbassò la testa, non per fare un mea culpa necessario, ma per declinare un problema reale alla quasi mera invenzione dei pubblici ministeri.
Com’è stato possibile tutto questo? Immediatamente dopo la sentenza d’Appello, un plotone di giornalisti, intellettuali e politici, cominciò un’operazione di salvataggio mediatico dell’imputato Andreotti, attuando una sistematica mistificazione della realtà. L’opinione pubblica fu fortemente influenzata dal parere quasi unanime di politici e media, che ribadivano a più riprese l’innocenza del senatore a vita. Si aprì anche, negli anni, un dibattito pubblico tra gli innocentisti e i colpevolisti, quest’ultimi in netta minoranza. Soltanto alcuni ‘eroici’ giornalisti, come Marco Travaglio, Giann Barbacetto e Saverio Lodato, o storici, come Nicola Tranfaglia, Salvatore Lupo, Paolo Pezzino e Umberto Santino, o sociologi come Pino Arlacchi, studiarono le carte della Procura di Palermo e le motivazioni delle sentenze, arrivando ad una conclusione molto differente dalla proclamata assoluzione di Andreotti trasmessa ai cittadini dalla televisione e dai quotidiani nazionali. È credibile un Paese che cancella una verità storica e giudiziaria, tenendo il cittadino comune all’oscuro di rapporti indicibili tra Giulio Andreotti e uomini potenti di Cosa Nostra? Come può il singolo realizzare nel proprio io un pensiero critico sulla vicenda se gli vengono negati gli strumenti necessari per produrlo? Eppure, sul processo Andreotti, ha regnato la disinformazione totale: la prescrizione scambiata per assoluzione; il reato commesso fino al 1980 scomparso dalle televisioni e dai giornali; la classe politica impegnata nel festeggiare la propria riabilitazione morale. Chi ci ha rimesso, purtroppo, è stato il cittadino. Da un lato, perché non ha potuto analizzare la vicenda per come è stata; dall’altro, perché il problema etico-politico è un tema sempre attuale, che la classe dirigente sembra proprio non voler prendere in considerazione. Il processo ad una delle figure più importanti del Novecento italiano, poteva senza dubbio essere l’occasione giusta per fare i conti con la realtà, prima che con la storia.
Infine, è dunque possibile fare politica commettendo dei reati? Secondo la teoria filosofica realista, l’azione politica con le mani sporche è necessaria. Si sa, la politica è compromesso. Ma fino a che punto ci si può spingere? Può essere identificato come compromesso politico un rapporto pluridecennale tra una specifica classe dirigente e Cosa Nostra siciliana? Anche se mancasse una rilevanza penale degli incontri accertati del senatore a vita con esponenti di Cosa Nostra, è possibile giudicare positivamente, eticamente e moralmente, l’attività pubblica di Andreotti?