di Nando dalla Chiesa
Ci mancava pure la nuova bufala. Dalla Chiesa fu fatto uccidere da Andreotti e Craxi perché “ce l’avevano sul collo”, ha dichiarato il pentito di mafia Francesco Onorato, ascoltato a Palermo nell’ambito del processo sulla trattativa tra Stato e mafia. C’è solo da sperare che ora questa non diventi la nuova “verità inconfessabile”, il nuovo “mistero” della storia repubblicana a cui si affezionano, “a prescindere”, giornalisti o giallisti di mafia. Qualcosa tipo le carte di Moro stipate nella cassaforte del prefetto, secondo le ambigue testimonianze di personaggi che mio padre disistimava profondamente. Ma credute con tenacia irriducibile da plotoni di “esperti da lontano”.
Andreotti, dunque. Che la corrente andreottiana fosse immersa fino al collo nella vicenda che portò alla strage di via Carini l’ho sempre pensato e detto. Lo dissi e lo scrissi quasi in assoluta solitudine trent’anni fa, l’ho riscritto e l’ho ridetto ogni volta che ho ritenuto giusto farlo, nei tribunali come nei libri o negli incontri pubblici. Che quella corrente fosse la più intrisa di mafia, la “più inquinata del luogo”, lo scrisse, inascoltato, mio padre stesso al capo del governo Giovanni Spadolini. E lo disse direttamente pure a Giulio Andreotti che aveva voluto vederlo prima della partenza per la Sicilia, avvisandolo che non avrebbe avuto “riguardo per i suoi grandi elettori” nell’isola. Né, ovviamente, si può dimenticare la posizione con cui Andreotti è uscito, nonostante le grida trionfali di amici e sodali, dal processo a cui fu condotto dalla procura di Giancarlo Caselli: “prescritto” per mafia. Non è dunque il riferimento al suo nome che mi meraviglia, anche se queste “novità” che arrivano a freddo dopo trent’anni mi inquietano e mi pongono interrogativi seri e più generali su strategie e comportamenti recenti di certi pentiti “minori”.
Quel che davvero suona come bufala è il riferimento a Bettino Craxi. Il quale (diversamente da Andreotti, che negò di suo pugno che esistesse un’emergenza mafiosa) sostenne con convinzione l’invio di mio padre a Palermo. Al punto che il nuovo prefetto venne visto dalla parte più compromessa della Dc come colui che aggredendo il sistema mafioso avrebbe oggettivamente squassato il potere democristiano in Sicilia a vantaggio del partito socialista. Partecipai a una discussione accalorata, incredula, di mio padre con un amico, tutti e tre seduti a un tavolo della villa di campagna, tre settimane prima del delitto. L’amico gli rappresentava la diffidenza dei vertici democristiani, convinti che lui fosse (testuale) “un cavallo di Craxi”. E mio padre, visibilmente allibito che questa potesse essere “la” o “una” ragione del suo isolamento, replicò di avere servito lealmente per quarant’anni ministri degli interni tutti democristiani. Se, come sempre si dice, nulla di ciò che la mafia fa è leggibile al di fuori di un contesto e di logiche politiche, questo fu il contesto.
Nessuno può accusarmi di avere nutrito tenerezze verso il craxismo. Ci sono le annate di “Società civile”, il mensile che dirigevo a Milano negli anni ottanta, a dimostrarlo. Credo anzi di avere ben pagato l’ avversione al craxismo in occasione della mia candidatura a sindaco di Milano nel 1993. Ma mi sentirei colpevole di avallare il falso se non dicessi che fu proprio Bettino Craxi, visibilmente provato anche emotivamente da quel che era accaduto, a difendermi dai pubblici furori che seguirono le mie denunce della matrice politica del delitto. Poi in pochi anni un bisogno di coerenza mi portò su posizioni lontane e anche contrapposte alle sue, ma questa è la verità.
Articolo scritto per il Fatto Quotidiano del 10.11.13