Di Anna Dichiarante – Osservatorio Antimafie Pavia
Anna Dichiarante e Luca Casarotti sono due studenti di Giurisprudenza dell’Università di Pavia. Insieme condividono l’impegno sociale a contatto coi ragazzi per discutere con loro di legalità, di diritti, di mafia. Nelle scuole ma non solo. Se vengono chiamati dagli educatori dei servizi sociali di un paese dell’hinterland, pavese o milanese, si precipitano senza indugi. In una biblioteca di Pieve Emanuele, ad esempio, per incontrare alcuni giovani cittadini stranieri, residenti in un comune interessato, in diversi tempi e modi, da fatti di mafia. Il volto di Antonio, così come si riflette negli occhi di Anna, ci restituisce la fotografia di un’Italia che, oltre gli eroi e una toponomastica gentile, vuole crescere più consapevole di sé.
Antonio. E Pieve Emanuele.
Antonio (il nome è di fantasia, ndr) ha un visino dolce, capelli tagliati a spazzola, carnagione chiara, occhi scuri; sembra forse un po’ più piccolo rispetto ai suoi tredici anni, ma è un bambino dall’aria compita ed educatissima. È attento, silenzioso, timido all’apparenza, ma anche sicuro e risoluto nel parlare e nel chiedere le spiegazioni che gli stanno a cuore; ogni tanto ho l’impressione che i suoi pensieri vaghino altrove, inseguendo qualche intuizione, ma, in realtà, credo che con le orecchie non smetta mai di ascoltare quello che viene detto intorno a lui in quel preciso momento. Antonio ha quell’espressione tipica di chi sta prendendo molto sul serio ciò di cui si parla, come se si trattasse di un problema tutt’altro che astratto o lontano dalla sua realtà quotidiana; mostra la serietà e l’interesse di chi si è davvero posto delle domande sul tema ed attende di avere risposte dettagliate, date con cognizione di causa e non così, tanto per ingannare la curiosità di un bimbo. Antonio è seduto su una piccola sedia colorata con le braccia appoggiate al tavolo, davanti a lui ci sono ancora alcuni quaderni su cui – fino a qualche minuto prima – stava finendo di preparare i compiti per le lezioni del giorno dopo. Penso che, di solito, venga qui in biblioteca appunto per farsi aiutare nello studio, forse anche per trovare un po’ di compagnia ed incontrare altri ragazzi, con cui trascorrere qualche ora durante il pomeriggio. Oggi, però, il programma previsto in biblioteca è diverso. Siamo arrivati Luca ed io per parlare di mafia ed ammetto che parlare di mafia in una biblioteca comunale dell’hinterland di Milano dà una sensazione strana. Pieve Emanuele ha la parvenza di un paese troppo cresciuto ed asettico per essere definito e vissuto come tale, ma non è abbastanza variegato ed animato per diventare un’autentica propaggine della grande città. Per essere onesta, non posso dire che l’insieme sia così brutto, ma tutto ha un aspetto quasi surreale, vagamente inquietante, sembra di attraversare un enorme agglomerato di edifici, di condomini-alveare dai colori severi e poco fantasiosi, sembra di addentrarsi in un reticolato di strade che corrono e si incrociano parallele: alcune vie hanno il nome di alberi o fiori, come se la gentilezza della toponomastica dovesse fungere da sorta di correttivo rispetto alla totale assenza di poesia nel panorama circostante. Missione, peraltro, destinata al fallimento…
Pensieri sproporzionati per un ragazzino di tredici anni?
Non so spiegarmi bene il perché, ma quando Antonio entra insieme ai suoi compagni – che arrivano alla spicciolata in biblioteca – lo noto subito. Ha uno sguardo che fa tenerezza e un’andatura un po’ troppo pesante per la sua età, come se nello zainetto che porta sulle spalle trascinasse, oltre ai libri di scuola, anche dei pensieri sproporzionati per un ragazzino di tredici anni. Dicono che, solitamente, non sia un tipo che si espone molto o che alza volentieri la mano per prendere la parola, ma oggi partecipa parecchio, ne sono sorprese persino le stesse educatrici che seguono i ragazzi ogni settimana, qui nella sala di lettura; anch’io, in effetti, mi sorprendo quando, durante una pausa, si avvicina e continua a chiedermi cose che a primo impatto suonano strane, cose su cui nemmeno io mi sono mai interrogata e che, per questo, mi spiazzano un tantino. Antonio mi ascolta, annuisce alle mie risposte, ma mi scruta, come se stesse cercando di capire se può fidarsi o no di me, di tutte le belle parole che uso, delle persone di cui gli ho raccontato e delle storie sulla mafia che ho snocciolato fino a quel momento di meritata pausa. Mentre gli rispondo, cerco di avvicinarmi a lui, ma mi fermo non appena mi accorgo che preferisce rimanere ad una certa distanza. Solo alla fine del nostro dialogo, riesco ad allungare una mano ed a sfiorargli la guancia con una carezza gentile e lui stavolta non si sottrae, anzi, la prende volentieri.
Allora non parlo di cose dell’altro mondo…
Non conosco le storie di tutti questi ragazzi; non conosco nemmeno come sia vivere a Pieve, ma parlare di mafia qui ha un sapore diverso. Perlomeno, un sapore diverso dal parlarne con persone che hanno sempre stampata sulla faccia un’aria di superiorità e di distacco, se non di vera e propria noia o noncuranza: è sempre la solita storia trita della mafia al Nord, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dei voti comprati…ma c’è altro da fare nella vita, ma è roba che non s’incontra per strada, nessuno circola vestito in gessato scuro, occhiali da sole anche col buio e fiore rosso appuntato al taschino della giacca. No, qui mi sembra di essere compresa meglio, qui mi fanno domande puntuali su come un negoziante estorto possa fare per riuscire definitivamente a ribellarsi alle richieste mafiose, su come riesca la polizia a cogliere in flagranza di reato gli estorsori, su come si faccia a non aver paura nel denunciare. Antonio mi chiede se la vittima che paga il pizzo diventi, per questo, complice dei suoi aguzzini. Allora non parlo di cose dell’altro mondo… I loro discorsi girano quasi sempre intorno alla paura, al pericolo cui si va incontro nell’affrontare i criminali, alla forza necessaria per non cedere alle intimidazioni anche se violente, alla difficoltà di discernere quali siano realmente le spie della presenza mafiosa e quali invece siano solo fatti di criminalità minore: perché è ciò che non si comprende e su cui non si è preparati ed informati che spaventa veramente. Ma, soprattutto, hanno un dannato bisogno di sapere di chi si possono fidare: siamo certi che tra coloro che combattono la mafia non ci sia qualcuno che racconta favole e falsità come facevano i mafiosi con Falcone? Siamo sicuri che non ci siano magistrati e poliziotti corrotti o collusi? Mi sento sulle spalle una responsabilità maggiore di quella che percepisco normalmente, quando incontro studenti nelle scuole per parlare di antimafia. Alla consueta attenzione che presto nel non fornire informazioni fuorvianti, nello scardinare stereotipi e pregiudizi, si assomma ora anche il compito di trasmettere un messaggio di serietà, di coerenza, di fiducia e di speranza; è come se, in quest’occasione, io fossi per loro il rappresentante di quelle istituzioni di cui vogliono fidarsi, ma che talvolta assumono ai loro occhi sembianze sbiadite ed evanescenti.
Insomma, mi pare che la loro paura non sia così profonda; forse m’illudo, ma mi sembra che stiano lì, davanti a me, ascoltino e pensino che, se un giorno dovesse capitare a loro di prendere una posizione, sarebbero pure disposti a rischiare ed a schierarsi dalla parte dello Stato, a patto però che qualcuno fornisca un minimo di garanzie, a patto che non si finisca per esser lasciati soli contro l’onnipresente piovra.
Disgusto, speranza e coraggio.
La mafia fa schifo. Con letture faticose e dedizione, tutti questi ragazzi se ne sono convinti. La mafia fa schifo quando uccide Lea Garofalo, fa schifo quando minaccia quel ragazzo napoletano che di mestiere fa lo scrittore, fa schifo quando riduce l’autostrada tra Punta Raisi e Palermo in una catasta indistinta di asfalto, terra e lamiere per togliere di mezzo un avversario, altrimenti troppo forte. Davvero lì, dentro a quelle auto distrutte, viaggiava proprio Giovanni, quel giudice così bravo e col sorriso simpatico?
Tengo il mio computer aperto, con le foto delle stragi di Capaci e via D’Amelio proiettate sullo schermo, e le loro bocche si spalancano dal disgusto, è inaccettabile anche per loro. Dopo aver parlato della vita dei due magistrati siciliani, infatti, devo anche raccontare la fine che hanno riservato loro, ma decido di cambiare l’immagine e, all’improvviso, metto sullo schermo l’ormai celebre ritratto di Giovanni e Paolo che si bisbigliano qualcosa all’orecchio, sorridenti: li hanno già visti, sì, quella foto è familiare, è affissa in tanti posti. Vedo che gli occhi di Antonio – sempre seri e vigili – si posano su quei volti ad intervalli regolari, li scrutano come se ne stessero esaminando ogni lineamento, e, allora, spero di averlo convinto – lui e gli altri, ovviamente – che la lotta è continuata, che non si tratta della cronaca di una disfatta, che di gente come “quei due giudici” ce n’è ancora oggi e che ci si può davvero fidare. Giovanni e Paolo sono morti, già, ma altri ne coltivano il metodo e praticamente nessuno li ha dimenticati, nemmeno a distanza di tanti anni. In futuro, dovremo imparare ad essere abbastanza furbi da non ricascare nei soliti inganni e da non farci portare via altri valorosi esempi di coraggio. Ché di speranza e coraggio c’è sempre un disperato bisogno.