Mercoledì 14 dicembre Gian Carlo Caselli è stato ospite allo Spazio Melampo, a Milano, dove ha presentato il suo ultimo libro “Assalto alla giustizia”. Al tavolo con lui  anche Silvia Truzzi, Nando dalla Chiesa e Umberto Ambrosoli.

I suoi capelli. Di un bianco tanto intenso quanto intensa è la vita che può raccontare, la conoscenza che può condividere. E il suo volto ha i segni della Storia, quella stessa Storia che la giornalista del Fatto Quotidiano, Silvia Truzzi, rievoca leggendo questo scritto di Piero Calamandrei, datato 1947: “Essi – i caduti della Resistenza, ndr – sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Non dobbiamo tradirli”.

Leggi chiare, stabili e oneste.

La moderatrice dell’incontro vuole sapere dal Procuratore com’è applicare queste leggi, cosa vuol dire realmente lavorare per dare quotidiana applicazione alla nostra Carta. E Caselli, sorridendo, risponde: “per un giudice vige il divieto di soggezione a tutto, poteri, potentati di qualsivoglia natura, eccezion fatta per la Legge. Avendo come riferimento la Costituzione” due articoli specialmente disegnano la geografia dell’azione di un giudice: “l’articolo 3, II comma e l’articolo 101, II comma”.

La corrispondenza, in toto, al dettato costituzionale è forse un traguardo ancora lontano, anche se certamente più avvicinato di quanto non lo fosse un tempo, nel periodo dello Statuto Albertino, ma anche dopo, con il Fascismo o nei primi decenni del regime democratico con la Costituzione repubblicana già vigente. Lo si evince dal libro, “Assalto alla giustizia”, nel passaggio in cui il giudice torinese rimanda prima all’epoca liberale, poi al ventennio fascista, per sottolineare che allora i giudici erano di nomina politica e quindi diretta emanazione del potere. Lo si evince ancora, ma nella sua dimostrazione contraria, quando  viene ricordato il caso Montedison, una vicenda giudiziaria, politica, sociale, economica importantissima per l’Italia perché segnò uno spartiacque fondamentale tra un’epoca in cui la giustizia veniva amministrata in modo ossequioso al potere e il giudice era “bocca della legge”, e un’epoca in cui la giustizia diventava strumento attraverso cui i giudici potevano interpretare e così dare vita al dettato costituzionale. “Sta qui – si legge a pagina trentanove – la forza della nostra Costituzione ed è per questo che qualcuno (arroccato nella difesa ad ogni costo dei suoi interessi) vorrebbe cambiarla. Perché ha ancora potenzialità enormi, una capacità ancora non esaurita di trasformare in realtà quotidiana diritti che ci appartengono”.

Aristotele, cos’è la Giustizia?

“Poiché il trasgressore della legge è ingiusto mentre chi si conforma alla legge è giusto, è evidente che tutto ciò che è conforme alla legge è in qualche modo giusto, infatti le cose stabilite dal potere legislativo sono conformi alla legge e diciamo che ciascuna di esse è giusta”. Questa logica inoppugnabile, rievocata da Andrea Camilleri nella prefazione al libro, con totale evidenza fa  a pugni con una certa cultura che impera in Italia da quando l’uomo di Arcore ha annunciato la sua “discesa in campo”. È la cultura delle leggi ad uso e consumo personale, che altro effetto non ha sortito se non  foraggiare quel clima di assalto alla giustizia che Caselli denuncia nel suo libro: una continua, insistente, capillare e pericolosa delegittimazione della magistratura volta a minarne l’indipendenza istituzionale e la credibilità sociale. Una situazione, questa, che traccia un’anomalia tutta italiana: quel paradosso per cui chi fa il suo dovere (di cittadino, di magistrato, di amministratore responsabile, di giornalista) non solo possa trovarsi costretto alla vita sotto scorta ma debba anche subire i più vili e beceri attacchi, dalla stampa e dalla politica senza distinzione. “Il fascismo era stato meno odioso di questa burocrazia togata”: questa frase, di paternità di Gianni Baget Bozzo e richiamata nel 2004 dall’ex premier, l’on. Silvio Berlusconi, è l’esempio lampante di quanto Caselli, ma non solo Caselli, va denunciando da anni.

Charles-Louis de Secondat

Il barone de La Brède et de Montesquieu occupa un posto d’onore nella letteratura del pensiero politico per aver messo a punto la teoria della separazione dei poteri. Umberto Ambrosoli, rifacendosi implicitamente a Montesquieu, parla di una “fisiologica contrapposizione tra poteri che però, in Italia, non è accettata tanto che quando la magistratura tocca la politica quest’ultima grida allo scontro fazioso e politicizzato”. La dittatura delle toghe rosse, dei criminali togati, come quelli della Procura di Milano: ricordiamo tutti la campagna elettorale meneghina del PdL che finemente recitava “Via le BR dalle Procure”. Un messaggio di una gravità inaudita, a detta di Ambrosoli, che in Italia riesce a sortire l’effetto di creare consenso. Questo, sempre secondo l’avvocato penalista figlio del noto liquidatore della Banca di Sindona, “è un’anomalia assolutamente italiana nel contesto europeo” che non solo dovrebbe destare allarme ma dovrebbe anche far riflettere tutti, ogni singolo cittadino. Perché solo riconoscendosi nella legalità, nel valore della giustizia, nella partecipazione e nel rispetto dell’altro una società può dire di camminare su gambe salde: “ciascuno ha per se stesso centomila giustificazioni, centomila alibi; l’ambizione all’impunità rende questi alibi delle regole affermate” che, passando per i centri di potere “giusti”, diventano legge. La memoria  di nessuno è così corta da aver già dimenticato quante nefandezze normative hanno seguito questa parabola nella storia del nostro paese.

Legalità

Del resto, “ogni nostro atto di nascita è segnato dall’illegalità; nella storia del potere, alla legalità si è sempre chiesto di pagare  un prezzo”. È l’esordio amaro di Nando dalla Chiesa, padrone di casa allo Spazio Melampo, che ricorda alcuni di questi atti di nascita: l’arrivo di Garibaldi a Napoli e la richiesta d’aiuto alla Camorra per mantenere l’ordine sociale piuttosto che gli Alleati che letteralmente si allearono a Cosa Nostra quando sbarcarono in Sicilia. La legalità allora ha davvero un credito da vantare allo Stato debitore.

Il libro, la testimonianza di Gian Carlo Caselli, ci induce a riflettere sul concetto di legalità, a interrogarci su quale senso porti con sé questa parola e ci consegna un messaggio che potrebbe essere reso così. Legalità non è moralismo; semmai moralità, etica. Legalità non ha niente da spartire nemmeno con termini come “giustizialismo”, “legalitario” o altre etichette inappropriate quanto dispregiative e ideologiche. Legalità è, semplicemente, rispetto, è uguaglianza, è pretendere l’inverarsi di questa regola: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

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