“In Basilicata la mafia non esiste”, “La Lucania è l’isola felice”: sono queste le affermazioni più diffuse che ancora oggi circolano tra le mura delle case lucane. Eppure episodi inquietanti come omicidi di mafia, condanne per associazione mafiosa, casi irrisolti di persone uccise o scomparse si sono verificati anche in questa piccola regione. Nonostante ciò, sembra che la dichiarazione di una tale presenza sia iperbolica o addirittura folle per un contesto così tranquillo. La Lucania necessita, dunque, di una profonda ricerca sul fenomeno mafioso, non ancora adeguatamente studiato, conosciuto e, di conseguenza, contrastato.
Quello della Basilicata risulta un caso-studio emblematico per supportare la tesi secondo cui nessun luogo, pur essendo diverso dagli altri e apparentemente poco appetibile per gli interessi mafiosi, può considerarsi immune rispetto alla criminalità organizzata. Come infatti avvertì il procuratore di Potenza Gennaro Gelormini nei primi anni ’90, “ la mafia ha una sua logica di sviluppo, perversa ma logica”. Seguendo la logica del profitto economico i clan si sono interessati alla regione prima ancora che lo facessero le istituzioni locali e nazionali: è una mafia, quella lucana, che non solo continua a trarre ampi vantaggi dal contesto deteriorando il già compromesso tessuto economico e sociale, ma che è riuscita anche a mimetizzarsi approfittando proprio delle resistenze e della miopia locali. È una mafia, infatti, di cui si ha difficoltà a rendersi conto. Come emerso dall’analisi di molti casi i clan mafiosi si sono infiltrati e insediati, anche qui, sfruttando a proprio vantaggio le criticità del territorio.
L’isolamento dei luoghi, l’arretratezza della regione e il ruolo marginale che questa ha da sempre ricoperto in ambito nazionale hanno fatto del territorio una meta privilegiata per confinanti o carcerati, ma anche zona di nascondiglio per latitanti o per le vittime dei sequestri, soprattutto a opera della ‘ndrangheta, con la complicità della posizione geografica particolarmente strategica. Tutti questi elementi si sono rivelati determinanti solamente da quando nella regione si è presentato un insieme di opportunità dovuto a cambiamenti di tipo socio-economico (in seguito, ad esempio, al terremoto dell’Irpinia del 1980, all’espansione dei traffici illeciti). Questo ha stimolato i clan delle regioni limitrofe a insediarsi nelle varie zone lucane, provocando, poi, il contagio nei criminali del luogo. Le peculiarità del contesto, a loro volta, sono state determinanti per la fisionomia, gli obiettivi e l’essenza dei gruppi autoctoni. Le organizzazioni lucane, cioè, sono riuscite a crescere e ad accumulare profitti mostrando, tuttavia, caratteristiche e interessi diversi dalle associazioni mafiose tradizionali.
Dall’analisi è emerso come la mafia, per i criminali del luogo, fosse considerata fin dall’inizio principalmente un mezzo per raggiungere mete sociali, come la ricchezza o l’emersione dalla miseria, ambite in quanto potenzialmente raggiungibili (basti pensare alle potenzialità economiche del petrolio) ma non garantite da mezzi legali e istituzionali, a causa di una gestione distorta delle risorse pubbliche. È per questo che l’associazione dei Basilischi, che inglobava fino a qualche anno la maggior parte dei gruppi delinquenziali del territorio con l’obiettivo specifico di controllare le attività illecite presenti in Basilicata, si mostrava come organizzazione di enterprise syndicate, dedita all’accumulazione della ricchezza.
Di conseguenza, i clan sono stati spinti ad agire nell’invisibilità, senza puntare direttamente al potere e senza la necessità di compiere atti eccessivi ed eclatanti, rafforzando così il mito dell’isola felice e della purezza lucana. Oltre al traffico di stupefacenti, un’attività tipica della criminalità organizzata lucana è l’usura, divenuta, con il tempo, uno dei settori più redditizi grazie anche alla crisi economica che negli ultimi anni ha reso la regione più fragile e i cittadini lucani ancora più poveri e bisognosi. Vi sono stati però anche gruppi mafiosi, come quello capeggiato da Renato Martorano, che si sono dotati di una propria identità e hanno cercato di puntare a obiettivi più elevati: secondo varie inchieste giudiziarie, questo boss avrebbe instaurato relazioni vantaggiose con alcuni politici locali e sarebbe riuscito a imporre il suo controllo, tramite la violenza e l’intimidazione, sulle imprese del capoluogo. Queste sono risorse promettenti che in futuro potrebbero permettere al clan di penetrare maggiormente nel tessuto economico e sociale del luogo.
La Basilicata di certo non può essere considerata terra di mafia, ma è comunque una regione a rischio, soprattutto se si continua a sottovalutare la presenza mafiosa e ad assimilare l’aumento di reati a episodi di delinquenza comune, come sta accadendo per l’esponenziale incremento degli incendi dolosi. La preoccupazione è fondata anche sulla considerazione che i clan lucani mostrano particolare capacità di rigenerazione e moltiplicazione, che gruppi pericolosi come quello di Martorano sono tuttora attivi e che antiche fragilità sono presenti ancora oggi. E tali valutazioni trovano riscontro nelle notizie più recenti: nell’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia, presentata a gennaio 2014, si parla di “salto di qualità” dei clan lucani, di “nuovi metodi”, “nuovi interessi “ e “nuove, pericolose alleanze” tra i sodalizi locali, ma anche oltre regione. E, nel frattempo, è arrivata anche la prima condanna, di primo grado, per “concorso esterno in associazione mafiosa” a Rocco Lepore, un ex assessore del capoluogo.