di Giulia Zuddas

Sabato 17 novembre presso la sede dell’Archivio di Stato di Milano, nell’ambito della manifestazione culturale Bookcity, il professore Nando dalla Chiesa, direttore del Cross, e i giornalisti de La Repubblica Attilio Bolzoni e Giuseppe Baldessarro hanno parlato del ruolo dei giornalisti che scrivono di mafia e di come le strategie di minaccia nei loro confronti sono cambiate nel tempo. Attilio Bolzoni ha presentato il libro, nato da una sua idea, “Giornalisti in terre di mafia. Quelli che scrivono e quelli che si voltano dall’altra parte”, il quale si inserisce all’interno della collana “Mafie”, edita da Melampo editore, assieme agli altri due volumi “Imperi criminali. I beni confiscati e il fallimento dello Stato” e “La mafia dopo le stragi. Cosa è oggi e come è cambiata dal 1992”.

“Giornalisti in terre di mafia. Quelli che scrivono e quelli che si voltano dall’altra parte” raccoglie le testimonianze e le riflessioni di trenta giornalisti, alcuni dei quali vengono tutt’oggi minacciati, come Federica Angeli che ha subìto pesanti attacchi verbali e intimidazioni dal clan degli Spada di Ostia o Giovanni Tizian che ha ritrovato la ‘ndrangheta della Calabria in Emilia Romagna.

Mafie, però, è anche il nome del blog che Attilio Bolzoni cura su La Repubblica.it e che gli ha permesso di tenere accesa l’attenzione sulla criminalità organizzata quotidianamente, non solo in occasione di un omicidio o di uno scontro tra clan. Come ha spiegato il sociologo Nando dalla Chiesa, per il potere mafioso controllare l’informazione è un’esigenza fisiologica poiché prevede silenzio e obbedienza. E, come si evince dalle testimonianze del libro, il controllo dell’informazione non viene esercitato solo nel sud Italia, storica roccaforte della criminalità organizzata, ma si estende fino al Lazio, all’Emilia Romagna, alla Lombardia, al Veneto.

Un cronista che scrive di criminalità organizzata può esser messo a tacere in molti modi: con le minacce verbali, con le intimidazioni (per esempio tramite l’invio di proiettili o di taniche di benzina) e con le querele. Le querele sono un’arma tagliente che, anche nel migliore dei casi quando si risolvono a favore del giornalista, portano via tempo, energie e risorse economiche. Un giornalista che non ha le spalle abbastanza coperte, secondo Giuseppe Baldessarro, perché magari lavora in una piccola redazione di provincia che non può coprirgli le spese legali, rischia di essere lavorativamente distrutto. Ed è questo uno dei principali problemi per l’informazione di oggi, poiché spesso la minaccia di querela viene fatta prima ancora della pubblicazione di un articolo e taglia così le gambe all’iniziativa di giovani cronisti volenterosi che hanno paura di andare avanti.

In Italia sono trascorsi alcuni decenni da quando è stato ucciso l’ultimo giornalista per mano mafiosa: era il 1993 e la vittima era Giuseppe Alfano. Oggi l’aggressione nei confronti dei cronisti che si occupano di raccontare la criminalità organizzata è cambiata: è più silenziosa, più subdola, utilizza strumenti differenti rispetto al passato. Ma una cosa è certa, spiega Attilio Bolzoni: chi vuole scrivere di criminalità organizzata deve andare in profondità nelle questioni che incontra, privilegiando lo studio del territorio, perché il territorio racconta, e sempre racconterà, tanto delle persone che lo abitano e dei meccanismi che vi si innescano.

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