di Mattia Maestri
Una storia inquietante. A pensarci ora, mette i brividi la “scoperta” della procura di Caltanissetta di qualche giorno fa. “Qualcuno si introdusse in casa di papà e frugò”, con queste parole Manfredi e Lucia, figli del procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino, riferiscono ai pm di Caltanissetta la violazione della proprietà privata subìta pochi giorni dopo la strage di via D’Amelio, il 19 luglio 1992, a Villagrazia di Carini. Senza forzare porte e finestre qualcuno si introdusse nella casa al mare di Borsellino per cercare documenti, carte o fascicoli interessanti. L’episodio fu denunciato già allora ai carabinieri che, evidentemente, si dimenticarono di trasmettere il verbale alla procura competente oppure giudicarono poco interessante l’episodio ai fini delle indagini. Almeno così pare stando alle pochi fonti disponibili e giudicando la sorpresa, nell’ascoltare la testimonianza di Manfredi e Lucia, dei pm di Caltanissetta impegnati a far luce sui misteriosi fatti successivi a quella maledetta domenica di luglio del 1992 e alla sequenza di avvenimenti che precedettero la strage (come il mancato divieto di parcheggiare nei pressi dell’abitazione della madre del magistrato, a lungo richiesto). “Papà non utilizzava quasi mai quella villetta per lavorare” ha ripetuto ai magistrati Manfredi, escludendo quindi l’ipotesi che a Villagrazia ci fossero dei documenti importanti. Ma chi entrò in quella casa a frugare senza dignità tra i ricordi di una famiglia esemplare?
Non finisce qui però. C’è dell’altro. Quello appena descritto non fu l’unico episodio denunciato dai figli di Borsellino. Il giorno dopo la strage, infatti, parteciparono all’inventario dell’ufficio del padre al secondo piano del palazzo di giustizia di Palermo e notarono la mancanza di tutti i fascicoli delle ultime inchieste che il magistrato stava seguendo. “Era chiaro che qualcuno aveva messo le mani in quella stanza”, hanno spiegato, “non c’erano fascicoli, né interrogatori legati alle inchieste sulle quali papà lavorava.” Episodio, questo, raccontato anche dalla vedova Borsellino, Agnese Piraino Leto, al giornalista Sandro Ruotolo, che rese pubblica la testimonianza solamente dopo la sua morte (il 5 maggio 2013), rispettando il volere della signora Agnese.
Sembra un disegno già scritto, la naturale sequenza di una strage italiana. Prima l’orrore della tragedia e poi subito, viscide come un serpente, le mani di poteri occulti che si apprestano velocissimi a nascondere la verità, a depistare le indagini e ad umiliare il lavoro importante di persone troppo rare in questo paese. Sono senza ritegno gli schiaffi inflitti alla storia di questi uomini e ai loro familiari, che hanno scelto di affiancare al sentimento di paura, che avevano, quello del coraggio e dell’impegno civile. “Mio fratello sapeva che a Palermo era arrivato un carico di tritolo, anzi di semtex, l’esplosivo militare, destinato a lui, glielo aveva detto il ministro Scotti, incontrato casualmente all’aeroporto. Ma il suo capo, il procuratore Pietro Giammanco, che aveva ricevuto l’informativa, glielo aveva tenuto nascosto. Perché tutte queste negligenze?” si domandava Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo, cinque anni fa. Perché i servizi segreti ci misero solamente pochi minuti a scoprire che in via D’Amelio fosse “saltato in aria” Borsellino e furono i primi ad arrivare sul posto? E ancora, perché la borsa di Paolo scomparve e ricomparve nel giro di un’ora, senza più l’agenda rossa (utilizzata da Borsellino per l’annotazione delle indagini e delle proprie scoperte), che non fu più ritrovata? Cosa scoprì di così pericoloso questo intelligente e preparato magistrato siciliano nei cinquantasette giorni seguenti alla strage di Capaci?
Questi quesiti potranno (dovranno, speriamo) ricevere una risposta seria e credibile dal processo attualmente in corso sulla strage di via D’Amelio, il “Borsellino quater” che, dopo anni di indagini della procura di Caltanissetta diretta da Sergio Lari, ha visto la luce il 23 marzo 2013. Ma questi misteri si sovrapporranno ad un altro fondamentale processo, quello per “attentato al corpo politico dello Stato”, che dovrà fare chiarezza sulla “trattativa Stato-mafia” avvenuta nel periodo delle stragi mafiose del 1992. Processo, iniziato il 27 maggio scorso presso la Corte d’Assise di Palermo, che vede imputati mafiosi come Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Salvatore Riina e Antonino Cinà insieme a uomini dello Stato come Giuseppe De Donno, Mario Mori e Antonio Subranni, a politici come Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino, e al figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, Massimo. Mancano all’appello Calogero Mannino che ha scelto il rito abbreviato e Bernardo Provenzano, impossibilitato a partecipare per le sue condizioni mentali, si legge nella perizia.
Attendiamo risposte, dunque. Vogliamo almeno capire perché ci sia stata sottratta la possibilità di continuare a ricevere insegnamenti preziosi da queste persone. E vogliamo che si dica forte e chiaro se “pezzi dello Stato” avessero avviato, in quel periodo, una trattativa segreta con criminali feroci come Totò Riina e Bernardo Provenzano. Magari facendo i nomi propri dei protagonisti. Dal primo all’ultimo. È troppo presuntuoso pensare che, a ventuno anni di distanza, sia arrivata l’ora della verità? Beh, noi la pretendiamo.