brasile-mondiali-680x365Ci sono dei luoghi a Rio che non si possono non visitare. C’è il Cordovado, il grande Cristo che domina la città; ci sono le spiagge di Copacabana ed Ipanema, dove ammirare le bellezze locali; c’è il Maracanã, uno dei templi del calcio che ospiterà la finale di questi mondiali. Poi ci sono anche dei luoghi che non si possono visitare: le favelas. Sicuramente però non si può far finta di non vederle. Sono lì, circondano la cidade meravilhosa. Qualcosa di meno bello però si consuma in quelle zone. Oltre il carnevale, oltre la musica, oltre le tradizioni, le favelas sono il regno della criminalità. Abbandonate a se stesse sin dalla loro creazione sul finire del 1800, da sempre terre senza Stato, negli anni ’80 si trasformano da semplice rifugio a obiettivi di conquista da parte di criminali di ogni sorta. Prima arrivano i rapinatori e poi – sulla scia dei cambiamenti che hanno riguardato tutto il Sud America – i narcotrafficanti. Pian piano si alzano anche i livelli di violenza. È una cosa inevitabile quando i soldi della cocaina consentono di armarsi sempre più e quando la politica statale è una: fare la guerra al tráfico per risolvere il “problema favelas”. Il conflitto diventa presto drammatico e pervasivo innestandosi nella violenza che attraversa la città.

I numeri sono impressionanti. Tra il 1978 e il 2000 muoiono per arma da fuoco più persone a Rio de Janeiro che in Colombia, paese nel quale è riconosciuta la presenza di guerriglie insurrezionali. Per la maggior parte dei favelados lo Stato è incarnato nel caveirão, il teschio con un coltello conficcato nel mezzo accompagnato da due pistole simbolo del Bope. Il Bope è il reparto operativo speciale della polizia brasiliana. Sono quelli che quasi quotidianamente invadono le favelas alla caccia dei narcotrafficanti. Vivi o morti, non importa come, la loro missione è fermare il nemico. I termini non sono scelti a caso: il Brasile è un Paese che vive una guerra civile non dichiarata.

Nessuna istituzione ha mai avuto il coraggio di riconoscere pubblicamente questa situazione. Anzi, a molti torna comoda. La corruzione è l’alter ego di Rio. A partire dai poliziotti che con tale pratica vedono aumentare in maniera esponenziale i propri stipendi, per arrivare ai presidenti delle associazioni degli abitanti delle favelas che spesso si trovano a dover scegliere tra la sottomissione ai criminali e la morte, la corruzione è ovunque. C’è però chi ha fatto il salto di qualità. Chi ha realizzato che forse poteva sfruttare ancora di più questa situazione, che i “poveracci” possono cambiare padrone. Dunque, ecco servite le milizie. Cresciute nell’ombra mentre tutti rivolgevano la loro attenzione solamente al narcotraffico,  sviluppatesi da gruppi che si proponevano di contrapporsi ai trafficanti e alla droga, le milizie sono state “scoperte” recentemente. È il 2008 quando due giornalisti della testata “O Dia” vengono rapiti e torturati perché ambivano a spiegare il fenomeno. Ma cosa sono queste formazioni? In prevalenza sono poliziotti, pompieri, agenti dello Stato – sia in servizio che no – che hanno deciso di diventare i nuovi capi criminali.

Non solo capi criminali ma anche capi comunità, perché quando una favela viene “conquistata” sia i trafficanti che i miliziani tendono a imporre regole sociali. Le leggi dei criminali servono per controllare il territorio garantendo che nessuno ostacoli il business. Il controllo della comunità, seppur variabile tra le più di 1000 favelas presenti in città, in alcune diventa totalitario: si limitano gli spostamenti delle persone ma si impongono anche determinati vestiti. Ad esempio, nelle zone del Terceiro Comando (Terzo Comando) e degli Amigos dos Amigos (Amici degli amici) – due fazioni narcotrafficanti rivali del Comando Vermelho (Comando Rosso) – è vietato indossare magliette di colore rosso. Oppure, le milizie vietano determinati tipi di musica perché associate al tráfico.

Nella guerra di Rio de Janeiro ovviamente non mancano gli scontri tra milizie e trafficanti. Così il conflitto si acuisce; anche se è da notare che tra “colleghi” è minore. Infatti, le milizie subiscono meno l’azione repressiva statale. Se questa sia una teoria complottista solo i fatti potranno smentirla ma osservando il programma delle Unità di polizia pacificatoria (Upp) sinora è innegabile. Il motivo potrebbe essere non solo la comune appartenenza ma anche il fatto che le milizie hanno saputo infiltrarsi meglio nelle istituzioni politiche arrivando a candidare i propri esponenti; un po’ come la camorra.

Le Upp, lanciate dal governo di Lula nel 2008 e tuttora in corso, si configurano come un cambiamento di politica. L’obiettivo dichiarato è quello di ridurre la violenza. Nella maggior parte delle 38 favelas attualmente pacificate il modello sembra funzionare. Ma non è tutto oro quello che luccica. Ad eccezione della favela di Batan – quella dell’ episodio dei due giornalisti – le altre comunità toccate sono solo quelle del narcotraffico. Inoltre il pericolo che le Upp diventino i nuovi capi comunità autoritari è sempre dietro l’angolo. Non da ultimo, osservandone la localizzazione si noterà che sono in prevalenza distribuite nei dintorni del Maracana e delle zone che nei prossimi giorni ospiteranno le migliaia di turisti accorsi per la Copa do mundo. Il sospetto di molti osservatori è che il programma sia strettamente legato alla coppa e alle Olimpiadi del 2016. Si spera che ciò non sia vero anche perché la reazione dei trafficanti non si è fatta attendere. Il 10 novembre 2013 hanno riconquistato la favela di Pavão-Pavãozinho.

Per combattere il crimine organizzato e la povertà delle favelas sono necessari investimenti massicci che mirino dritti all’obiettivo e migliorino la vita di milioni di brasiliani. È questa la rivendicazione principale che, in questo periodo, scuote il Paese. È quello che Rio de Janeiro e il Brasile devono (avrebbero dovuto) fare. Solo così che potremo ammirare tutte le bellezze che conosceremo nel periodo dei mondiali senza pensare che troppe persone non sono Cittadini con la “c” maiuscola e che i mondiali e le future olimpiadi siano state un’occasione persa per migliorare tale situazione.

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