Un report non convenzionale della bellissima settimana al campo di lavoro di Polistena (RC), organizzato da Libera.
La Calabria sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme.
(Guido Piovene)
Nel centro di Polistena c’è un palazzo. Cinque piani in cui spaccio di droga e pestaggi erano all’ordine del giorno. Cinque piani che oggi sono in fase di ristrutturazione. Cinque piani che domani ospiteranno un ambulatorio di Emergency, un centro di ritrovo per ragazzi e molto altro ancora.
C’è anche una gioielleria, a Polistena. Si trova proprio di fronte a quel palazzo. I ragazzi del posto dicono che i suoi proprietari, una volta, possedevano anche il palazzo da 5 piani. Poi gli arresti, il sequestro dei beni e la confisca.
Va così, a Polistena, centro di 11mila anime nel sud della Calabria a due passi dalla piana di Gioia Tauro, da Rosarno e da San Luca. Mafia e antimafia si fronteggiano lungo un confine sottile, spesso impercettibile, fatto di piccoli segnali, sguardi, mancati saluti. Raramente, minacce. Un confine che, quando lo attraversi, nemmeno te ne accorgi. Basta cambiare marciapiede, entrare in un bar, indossare una maglietta.
Si: se indossi una maglietta rossa, a Polistena, la gente ti riconosce subito. Sarà per il colore vivo, sarà per quella scritta che campeggia sui petti dei ragazzi che la indossano: “E!State Liberi! Campi di lavoro sui terreni confiscati alle mafie 2011”. Tutti la notano. Qualcuno ti sorride. I più ti ignorano. Pochissimi ti squadrano. Gli affari vanno bene lo stesso e questo è quello che conta.
Anche tu, a Polistena, la gente la riconosci subito. Non dagli abiti, non dalla catenina d’oro, non dagli occhiali da sole: a Polistena, la gente la riconosci da come ti guarda. Chi è con te ha gli occhi illuminati di gioia, qualche volte lucidi di emozione. Li conti sulle dita di una mano, forse di due, quando esci la sera. Chi non è con te non è per forza contro. Ti guarda con curiosità. Una curiosità figlia di quell’apatia, di quella rassegnazione, di quell’accettazione più o meno forzata e, raramente, di quell’interesse personale che lo condanna al limbo degli ignavi: la “zona grigia”, vero e proprio cuscinetto sociale tra quei pochi che ti guardano bene e quegli altrettanto pochi che ti squadrano. Vero e proprio freno alla vittoria dell’antimafia. Vera e propria garanzia di successo, impunità e immortalità della mafia.
Anche se stai dalla parte giusta, però, a Polistena con la mafia ci convivi. Antonio – il responsabile del campo – quasi se ne vergogna quando, occhi bassi e voce fioca, te lo racconta. Ci convivi tra i banchi di scuola, quando non ti spieghi perché con alcuni tuoi compagni i professori chiudano sempre un occhio. La incontri quando la tua cooperativa riceve strane proposte di “collaborazione”. La saluti quando il boss del paese ti avvicina al bar per offrirti un caffè. In molti, quel caffè lo accettano. Qualcuno lo rifiuta. Qualcun altro si ribella. E muore.
Come Peppe Tizian, bancario freddato a colpi di lupara per non aver abbassato la testa di fronte a una pratica in odore di mafia, Gianluca Congiusta, commerciante e amante dello sport, Celestino Fava, suonatore di Sax ucciso a soli ventidue anni, Rocco Gatto, mugnaio di Giosa Jonica iscritto al PCI e ucciso per essersi rifiutato di pagare il pizzo e Lollò Cartisano, fotografo sequestrato e ucciso sui pendii della Locride, in Aspromonte. Proprio tra questi pendii, dove la brutalità dell’uomo non è ancora riuscita ad intaccare la disarmante bellezza della natura, un’emozionate marcia al fianco dei parenti delle vittime ne tiene viva la memoria: non un punto d’arrivo ma il germoglio di quella’azione e di quell’impegno civile antimafioso da proiettare nel futuro. Scendendo verso la costa il cartello di San Luca è devastato dai buchi dei proiettili: la conferma di come la lotta alla mafia, qui, sia ancora da cominciare.
A Polistena, invece, ci sono i ragazzi di Don Pino Demasi, il parroco che da decenni tiene alta la bandiera dell’antimafia nella più profonda Calabria. Girano per il paese a testa alta, facendo nomi e cognomi, snocciolando aneddoti, raccontando fatti e personaggi con una profondità analitica inimmaginabile per gente di vent’anni. Li ascolti in silenzio, affascinato dal loro coraggio, incantato dalla loro genuina semplicità, persino imbarazzato e frustrato dall’idea di un possibile confronto tra la tua persona e la loro.
Poi, però, ti rivedi negli sguardi ricchi di speranza e di quel pizzico di sana ingenuità adolescenziale dei tuoi compagni più giovani, ti ritrovi nelle debolezze dei tuoi coetanei, nei loro piccoli e splendidi difetti, nelle loro paure e nei loro sogni. O ancora, ti immagini tra vent’anni e speri di conservare intatta l’eccezionale vitalità che i tuoi compagni più grandi hanno saputo custodire. E capisci che, in fondo, non serve essere eroi per essere grandi.
Del resto, lo diceva anche Falcone: “l’antimafia non ha bisogno dell’impegno straordinario di una minoranza eroica, ma l’impegno ordinario di una moltitudine onesta”.
Arrivederci, Calabria.