Di Sara Manisera
Se a Rosarno la maggior parte delle persone proviene da Burkina Faso, Costa d’avorio, Guinea Bissau e Senegal, a Falerna le cose stanno diversamente. Mi trovo in provincia di Lamezia Terme, nel centro d’accoglienza per richiedenti asilo (CARA) gestito dalla Protezione Civile. Qui vivono 180 persone; la maggior parte sono uomini ma alloggiano anche una quarantina di donne e tre bambini. Provengono soprattutto dalla Somalia ma anche dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Nigeria, dal Sudan, dalla Sierra Leone e dalla Tunisia: tutti richiedenti asilo e tutti sbarcati a Lampedusa. Le loro storie sono senza fine; storie di viaggi lunghi due anni, di fratelli uccisi per non arruolarsi, di stupri, di violenze, di guerra e di speranza. E’ pertanto comprensibile che la convivenza tra le diverse comunità non sia per niente facile; come mi racconta Giuseppe Pugliese (responsabile Osservatorio Migranti Rosarno e mediatore culturale qui al centro) basta davvero poco per far scoppiare la scintilla.
In parte questo dipende dall’esistenza di più culture e dalla mancanza di un’educazione; la maggior parte sono giovani cresciuti in paesi in guerra, senza alcuna regola, abituati ad estrarre un coltello e a maneggiare le armi molto facilmente. In parte, però, questo dipende dalla solita burocrazia italiana incapace di garantire il basilare rispetto dei diritti per i richiedenti asilo. Chi inoltra la domanda di richiesta d’asilo, infatti, viene esaminato da una commissione territoriale che, entro 20 giorni, deve comunicare la decisione ai richiedenti. Peccato però che i tempi reali siano di sei mesi. Così due giorni fa in seguito alla comunicazione di diniego ad una decina di nigeriani, i ragazzi sono impazziti. Non solo privati dello status di rifugiato (come se il loro viaggio in mare fosse diverso dagli altri) ma addirittura costretti ad aspettare sei mesi per una comunicazione che dovrebbe essere un loro diritto. Fortuna vuole che la struttura del centro non è nelle stesse condizioni di quelle presenti a Crotone o a Catania: i richiedenti asilo qui vivono in case-vacanze in buono stato, dalle quali possono liberamente uscire. Il problema, però, è che la legislazione italiana vigente (Legge Bossi-Fini, n°189/2002), abrogando il comma 7 dell’art. 1 della Legge Martelli, non prevede un contributo economico ai richiedenti asilo e questo determina il verificarsi di gesti estremi e drammatici: ragazzi che vanno a raccogliere le olive per quindici euro, donne che si prostituiscono per pochissimi euro e persone che vendono le sigarette che vengono loro date per comprarsi il cibo. Il problema del cibo, appunto. Una delle prime cose che chiedo quando arrivo nel centro è come le persone si organizzano per mangiare. Essendo di paesi diversi, abituati ad un’altra dieta alimentare e oltretutto dotati di cucine (dato che vivono in case-vacanze) era per me logico pensare che si organizzassero tra le comunità e si cucinassero autonomamente. Invece no. La somministrazione dei pasti ai 180 migranti presenti nel centro è affidata ad una cooperativa che, in base ad un indefinito appalto affidato dalla protezione civile, ha il compito di fornire 180 pranzi e 180 cene, che il più delle volte (come mi dicono gli operatori) vengono buttati. Un bel business insomma. Grazie all’ordinanza del Presidente del Consiglio del Ministri n. 3933 del 13 aprile 2011, infatti, la protezione civile ha l’incarico di realizzare tutti gli interventi necessari a fronteggiare lo stato di emergenza senza seguire le normali procedure per le gare d’appalto pubbliche. E così, come per il terremoto dell’Aquila, l’emergenza migranti diventa uno strumento legale e legittimato che permette di nascondere interessi e clientelismi, speculando sulla pelle dei migranti.