di Riccardo Christian Falcone*
Eravamo in piazza, sabato 16 novembre, anzitutto per esprimere rabbia. Rabbia e indignazione. Perché oramai i morti si contano a centinaia. E perché non c’è più ragione per non riconoscere quel nesso di causalità tra questi morti e l’inquinamento, i roghi, la diossina, le montagne di rifiuti che si accumulano verso l’alto o sprofondano sotto terra. Era la rabbia di un’intera regione, per decenni utilizzata come sversatoio di veleni senza che nessuno muovesse un dito. Ed è davvero insopportabile ora ascoltare la voce di chi, di fronte alle dichiarazioni del carnefice Schiavone, grida “finalmente la verità”. La verità la sapevamo tutti qui in Campania. Tutti. Da 25 anni. Qualcuno ha provato ad urlarla, inascoltato. Quindi no, non c’è spazio per chi si tira fuori. Qui si che non si poteva non sapere.
Dunque, rabbia. Finalmente e fortunatamente la rabbia.
Ma noi eravamo in piazza sapendo bene anche che la rabbia non basta, perché da sola non cambia le cose. Anzi. La rabbia ha senso solo se diventa energia positiva, se incontra altre parole.
È questo che abbiamo voluto fare allora: portare in piazza altre parole che potessero dare senso a quella rabbia, declinarla nel senso dell’impegno, della responsabilità.
Verità. Vogliamo la verità su quanto è accaduto in questi anni. Vogliamo sapere di chi sono le responsabilità, con cosa hanno ammorbato la nostra terra, dove hanno sversato i loro veleni. Verità e trasparenza, sui soldi già spesi (troppi e male) e su quelli che (come chiediamo e speriamo) saranno spesi per le bonifiche.
Giustizia. Vogliamo giustizia anzitutto per le vittime di questo massacro. Vogliamo che una volta per tutte si certifichi il nesso causa/effetto, attraverso l’incrocio dei dati sui tumori e le aree contaminate. Questo può accadere solo se otteniamo l’istituzione di un Osservatorio Epidemiologico ed è quello che chiediamo con forza. Per dare giustizia anche alle centinaia di familiari delle vittime del biocidio campano.
Ma non bastano neanche queste due parole per ottenere il cambiamento. Parole fondamentali, per carità, ma che guardano indietro, a quello che è già accaduto, al prezzo che abbiamo già pagato. Ora occorre guardare avanti, produrre il cambiamento. E il cambiamento, lo sappiamo bene, si produce solo se, accanto a questa richiesta di verità e giustizia, mettiamo il nostro impegno per costruire speranza. Speranza allora è la terza parola che abbiamo portato in piazza. Un speranza che si nutre della rabbia, della denuncia, dei cortei e delle urla ma che sa andare oltre e puntare al cambiamento. Una speranza, appunto, che diventa impegno e responsabilità.
Tutto questo sapendo bene che non tutto è deserto e morte, che ci sono contadini che hanno resistito alla camorra, alle scorciatoie, all’arricchimento facile; che non hanno ceduto i loro terreni e che non ne hanno violentato il grembo; che hanno investito di loro per garantire la dignità del loro lavoro e dei frutti della loro fatica. Non potrà accadere che a pagare il prezzo, dopo due decenni, siano ancora e di nuovo loro. Puntiamo al cambiamento allora partendo dal buono che c’è, da chi ha resistito, da chi non si è piegato. Insieme, stringiamo un patto nuovo perché questa terra smetta di essere la Terra dei Fuochi e torni ad essere Terra Felix. Tutti, ognuno facendo la sua parte: la politica, troppo a lungo colpevolmente distratta se non complice; lo Stato, riconoscendo il diritto alla salute, tutelando l’ambiente, salvaguardando la vita dei cittadini; il mondo produttivo e imprenditoriale, che ha troppo spesso barattato il diritto al lavoro con quello alla salute; i cittadini stessi, perché si riprendano la dignità loro e della loro terra, senza cedere alla rassegnazione, al silenzio, alla complicità.
Si tratta di rieducarci alla bellezza. Ce lo ha insegnato Peppino Impastato: educarci alla bellezza ci aiuterà a sconfiggere l’abitudine e la rassegnazione. E si tratta di avere coraggio. Quello stesso coraggio che Renata Fonte, assessore a Nardò, seppe dimostrare quando si oppose al progetto che avrebbe mortificato la bellezza di Porto Selvaggio. Lei pagò con la sua vita quel coraggio. Era il 1984. Oggi Renata rivive in tutte le foglie di quello che, grazie al suo sacrificio, sarebbe poi diventato il Parco regionale di Porto Selvaggio. Ecco perché lei non è morta invano. Ed ecco perché, se anche noi riusciremo a dimostrare lo stesso coraggio, non saranno morti invano tutti quei bambini che abbiamo visto sorridenti sui cartelli portati orgogliosamente e drammaticamente in corteo dalle loro mamme. Non saranno morti invano, perché ci avranno educati a riscoprire la bellezza e ad avere il coraggio di preservarla.
*Riccardo Christian Falcone è il responsabile comunicazione e beni confiscati del coordinamento di Libera Salerno e tutor per la Campania per il progetto “Libera il bene”