Descrivere Corrado Stajano è arduo. Mi fa sedere nel suo studio e inizia ad intervistare l’intervistatore: sembra proprio che preferisca essere lui quello che fa le domande e racconta le storie. Come quando, parlando del circolo Società Civile nomina tutti tranne se stesso, glielo faccio notare.
“Io cerco sempre di essere un testimone e di raccontare degli altri, adesso tutti parlano di se stessi. Tutti parlano in prima persona e non solo nel giornalismo, tutti ti raccontano i fatti loro, ma non ti chiedono come stai: c’è una sorta di io preponderante”. Se gli si chiede la sua idea di giornalismo la chiarisce in due parole: verità da un lato, libertà dall’altro. “Bisogna essere rispettosi dei fatti, cercare di raccontare il più possibile la verità. Lavoro che può essere fatto a caro prezzo, anche perché i giornali sono in mano a società il cui interesse primario non è la libertà di informazione e purtroppo i giornalisti sono sempre stati incapaci di mettersi assieme, il manifesto è un’eccezione. E questo ci porta ad avere un giornalismo improntato al sensazionalismo”. Malgrado la laurea in giurisprudenza ha preferito scrivere: “c’era in me una spinta ad andare a vedere con i miei occhi, adesso non si usa più, la mia curiosità è stata importante”. Come quando arrivò in piazza Fontana il 12 dicembre del ’69: “tornavo da Roma, lavoravo per la televisione allora, e il tassista mi parlò di una caldaia esplosa, mi feci portare lì subito e fui fra i primi ad arrivare”. Il primo libro che scrisse fu Il sovversivo, la storia dell’anarchico Franco Serantini ucciso nel ’72 dalla polizia. “Ho sempre tentato di ricostruire i fatti perché attraverso loro arrivi alle verità, senza sottovalutare mai l’importanza dei particolari: è dai dettagli che arrivi all’assoluto. E ho dato molta importanza anche all’andare a vedere i luoghi dove i fatti sono accaduti, ascoltare le persone e conoscerle. Non fargli una fredda telefonata come si usa adesso. Ora tutto avviene di fretta. Oggi imbastiscono un’inchiesta guardando internet e facendo quattro telefonate, il giornalismo è degradato – medita un attimo scrutandomi e aggiunge – guardi che non voglio fare un elogio del giornalismo passato che fu spesso brutale, ma è un fatto che la qualità fosse più alta. Ma questo non solo nel mondo del giornalismo, vale per tutta la società”.
Parlando della situazione attuale avverte subito di come il problema sia politico, “la politica ormai è molto povera, insufficiente. E penso che la società civile sia abbastanza ben rappresentata da quella che è la classe politica, non è che siano molto diverse. Io sono stato in Parlamento – come senatore della XII Legislatura – e ho visto che le persone non sono differenti, società e politica sono parallele, puoi fare degli scarti nel senso che c’è di meglio e di peggio, di qua e di là. Ma il problema è che la società politica non conosce la società civile. È quasi un fatto metodologico, nella mia esperienza vedevo che i parlamentari sapevano poco di quello che accadeva nella società”. Nel suo Promemoria ha descritto il Senato come un’oasi protetta, priva di ponti levatoi, dove tutto è statico in opposizione ad una società in perenne divenire. E, a proposito di una politica povera, parla dell’ultimo pezzo che ha scritto sul Corriere della Sera in cui rimprovera la capogruppo del Partito Democratico del Consiglio Comunale milanese, Carmela Rozza – iniziava ricordando come “prima di parlare bisognerebbe pensare, almeno un attimo, a quel che si sta dicendo” -. “Articoletto” lo chiama: nulla di importante, ha semplicemente detto quello dovrebbe essere ovvio e “almeno lei ha dovuto dare una risposta” in cui chiarisce come volesse solo tranquillizzare la maggioranza. “Mi verrebbe quasi da chiedermi cosa ci faccia lì quella persona”.
In Mafia a Milano viene citato dagli autori (Portanova, Rossi e Stefanoni, ndr) quando parlano delle resistenze interne ai giornali – negli anni ’80 – circa l’affrontare i collegamenti fra mafia e politica. Invece “oggi è un problema differente, si tratta anche di ignoranza. L’ho scritto, nell’articolo di cui le parlavo prima, che la ‘ndrangheta è l’azienda leader di Milano. Ma l’organizzazione si è ben inserita negli organismi statali. Se fosse un’associazione criminale semplice lo Stato la sgominerebbe in fretta, ma le connessioni con organi statali sono molto forti e saltano fuori di continuo, magistratura compresa; basti pensare a quel giudice arrestato pochi mesi fa in Calabria (Vincenzo Giglio, ndr)”.
Appoggia i pugni sulla scrivania e si china posandovi sopra il mento. Un’immagine che permette di scorgere in lui, dietro ai suoi modi sbrigativi, un’autenticità rara. “Ma lei vuole fare il giornalista? Sai, io non ti consiglierei di fare il giornalista. No, davvero, a tutti quelli che me lo chiedono glielo dico. Io sono stato un privilegiato: ho fatto sempre quello che ho voluto. Ma per riuscirci, l’ho dovuto fare sempre a mie spese: il privilegio della libertà costa. E spesso bisogna essere disposti e pronti a dimettersi”.
Sentendo il nome di Giuliano Pisapia pare ridestarsi d’un colpo “eh poveretto, non c’è da augurarsi di essere lui ora… lui fa di tutto ma insomma le difficoltà sono tante, già oggi c’è una nuova polemica, è difficile tenere uniti tutti. Poi divenuto sindaco ha subito trovato buchi di bilancio lasciati dalla precedente amministrazione e gli danno addosso per tutto quello che fa. Come con la vicenda del traffico dell’Area C, tutti parlano del bene comune, ma poi in sostanza tutti pensano ai propri interessi. In un momento drammatico come questo – e non so quanto l’opinione pubblica ne sia cosciente – ognuno dovrebbe fare dei sacrifici, si tratta anche di realismo. E tutto questo è collegato anche a una perdita di valori, non solo in Italia, ma in Italia pare che tutto sia più pesante. Aggravato. Abbiamo festeggiato i 150 anni di Unità, ma siamo sicuri che il paese sia unito? Guardiamo questi fenomeni, la Lega Nord per esempio, sono pericolosi fenomeni di rottura di un’unità che è costata sangue, dolore e fatiche… e adesso in modo dissennato e incolto si cerca di dividere il nord dal sud, per cosa? La Padania non esiste, non sottende a nessuna entità storica, geografica o politica. E si è anche perso rispetto per l’idea di Stato come entità di cittadini, come rappresentante della nostra società”.
E se gli si chiede se ha auspici, replica secco: “nono, io non auspico niente, io vado avanti a fare quello che devo fare. Domani (26 gennaio, ndr) sarò ad un dibattito su Alberto Cavallari. Ma comunque non bisogna smettere di sperare perché si può ancora fare e rimediare. Io non rinuncerei mai, ma ora tocca a voi ricostruire il tessuto politico-culturale di questo paese. Noi abbiamo fatto tutto quello che era possibile, siamo stati il più delle volte sconfitti e ovviamente non rinunciamo, però ora è il turno delle generazioni nuove”.