Incatenati. Con il cuore stretto in una morsa d’angoscia. Non sono gli uomini del ‘mito della caverna’ di Platone, ma sono tre testimoni di giustizia del nostro Paese. Tre onesti cittadini che hanno deciso di sfidare la criminalità organizzata, con coraggio e con impegno. Il primo, Ignazio Cutrò, imprenditore antiracket agrigentino, che dal 1999 lotta contro Cosa Nostra che gli chiede il pizzo; il secondo, Gianfranco Franciosi, proprietario di un cantiere di imbarcazioni a Genova, che si improvvisa agente infiltrato tra i narcotrafficanti che facevano arrivare la droga nel capoluogo ligure; il terzo, Pietro Di Costa, imprenditore di Tropea, titolare di un istituto di vigilanza che ha denunciato l’usura subita da personaggi legati alla cosca Mancuso. Grazie alle loro denunce, la magistratura ha svolto importanti indagini e ottenuto ottimi risultati, arrestando mafiosi e narcos e sequestrando quantitativi esorbitanti di droga.
E ora? Sono soli. Con le loro paure, i loro timori di essere morti che camminano. Abbandonati da uno Stato che non riesce a garantire loro i beni primari, oltre alla protezione. Ignazio Cutrò vive sotto scorta dal 2008, dopo le condanne dei suoi estorsori che egli denunciò con fermezza. Il copione sempre lo stesso: prima la richiesta di pizzo, poi le minacce e infine gli attentati e le intimidazioni a tutta la sua famiglia. Cutrò avrebbe potuto andarsene dalla Sicilia e vivere a spese dello Stato in un luogo segreto e sicuro. E invece no. Decide di restare nella sua terra e lottare duramente, per dare l’esempio. “Io avevo deciso di continuare a lottare e sono rimasto nella mia terra, perché ero convinto che fosse necessario dare una testimonianza concreta di come sia possibile sconfiggere la mafia”, spiega l’imprenditore di Bivona.
Ma dopo le denunce, il suo lavoro ne risente e l’impresa comincia a navigare in cattive acque. “I privati non mi hanno più chiamato per lavorare – continua Cutrò – e non posso nemmeno partecipare alle gare pubbliche perché, ormai, non ho la documentazione amministrativa in regola. Non ho neanche i soldi per vivere, da quasi un mese a casa hanno tagliato luce e gas”. Ora la decisione di abbandonare la Sicilia, già comunicata al viceministro dell’Interno Filippo Bubbico. Aveva chiesto allo Stato di prendersi a carico i suoi figli e dare loro la possibilità di studiare e rifarsi una vita. Ma la volontà di un padre onesto e coraggioso, che chiede soltanto la felicità dei suoi figli, non viene accettata dal Ministero presieduto dal suo conterraneo Angelino Alfano (colui che baciò il capomafia di Palma di Montechiaro nel lontano 1996). Sembra quasi uno scherzo del destino.
Ignazio Cutrò si trova da questa mattina davanti al Viminale, incatenato insieme a Pietro Di Costa e Gianfranco Franciosi, l’altro testimone di giustizia raccontato da Riccardo Iacona nella puntata di Presadiretta del 20 gennaio scorso. Proprietario di un cantiere, meccanico di alta precisione, accetta la proposta della questura di Genova di diventare agente infiltrato per la polizia italiana (dal 2007 al 2011), dopo aver denunciato un napoletano e uno spagnolo che si erano recati nel suo cantiere chiedendogli un particolare gommone che potesse, in totale sicurezza, trasportare droga. Franciosi è uscito dal programma di protezione da qualche tempo e ora cerca di mantenere la sua famiglia in completa solitudine, dopo che lo Stato non è riuscito ad offrire a lui e alla sua famiglia un’adeguata sicurezza.
Un grido di rabbia e disperazione accompagna questi tre uomini nella loro estrema protesta, incatenati davanti a quel palazzo che avrebbe dovuto garantire la loro sicurezza e impegnarsi a sostenere le loro famiglie, che ora si trovano in grande difficoltà. Lo Stato sta abbandonando moltissimi testimoni di giustizia al loro destino, senza fare niente. Si sta girando dall’altra parte, quasi a interiorizzare un comportamento omertoso che non rende onore a queste persone, ricche di coraggio e con la schiena dritta, che, in silenzio, hanno lottato e creduto in una società più giusta, mettendosi nelle mani di chi li avrebbe dovuti difendere. “Voglio regalare la chiave di questo lucchetto che cinge le nostre catene alle tre cariche dello Stato per liberare le nostre catene. Noi siamo testimoni di giustizia”, così Cutrò spiega il loro gesto.
Lo Stato ascolterà le loro ragioni? Cercherà adeguate soluzioni per porre fine a queste terribili e inquietanti mancanze? Non si può non ricordare, infine, quello che è accaduto pochi mesi fa al pm Nino Di Matteo, impossibilitato, dopo le numerose minacce di morte di Totò Riina dal carcere di Opera, a partecipare all’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia svoltasi nell’aula bunker di Milano (per esaminare le parole del testimone-imputato Giovanni Brusca). Uno Stato che non riesce a garantire l’adempimento del proprio lavoro ad un magistrato che indaga sui misteriosi fatti che hanno insanguinato gli anni 1992-1993 con stragi spaventose, può essere considerato uno Stato che adempie ai propri doveri? E uno Stato che non garantisce sicurezza alle persone che decidono di schierarsi dalla parte giusta, in contesti dove scegliere non è per niente facile, può essere considerato uno Stato Giusto?