di Mattia Maestri
Sono le nove, a Monza. È una fredda giornata brianzola. Ma a scaldarti ci pensano centocinquanta studenti del liceo. Pronti a sbarrare gli occhi durante i tuoi racconti. Perché la cosa bella che ti capita quando vai nelle scuole a parlare di antimafia e legalità, è osservare quegli sguardi. Spesso sembrano specchi, che ti sbattono in faccia la tua adolescenza passata. E allora rivedi la tua ribellione e i tuoi sogni utopici e ingenui. E sorridi, pensando che neanche troppo tempo fa eri come loro. Contro il sistema, contro tutti, perché l’importante era essere contro. Sfidare, anche i più grandi. Loro ascoltano, recepiscono. E non vinci soltanto quando sono interessati e fanno domande. Sei nella direzione giusta anche quando stimoli i loro dubbi, le loro paure. Perché dietro la corazza da duri, hanno un animo fragile, che va studiato, capito. ma soprattutto ascoltato. A volte basta una scintilla, una parola. Un nome. Un numero. Una storia. A volte non serve dire chi siamo, cosa facciamo. Basta spiegare il perché, lo facciamo. A volte, invece, necessitano di rassicurazioni, di esempi positivi. Sperando che non ti chiedano mai di Genova, di Federico, di Stefano, di Giuseppe.
Poi, invece, quasi dal nulla: “Ci insegnate che dobbiamo avere sempre fiducia nella polizia, nelle istituzioni, rispettare le regole… Ma com’è possibile che un ragazzo venga picchiato a morte senza motivo da coloro che dovrebbero proteggerci dalla violenza?”. Silenzio. Vorresti gridare che ha ragione. Ma ti sforzi di rispondere che è importante non generalizzare. Che in molti luoghi del nostro Paese, uomini con la divisa al servizio dello Stato sono stati uccisi per difendere lo Stato. Che l’assoluta maggioranza dei poliziotti svolge il proprio mestiere con dedizione e valore civile. E strozzi in gola tutta la rabbia. Nel sentirti fuori luogo e disarmato davanti ad un quesito del genere. Perché come facciamo a spiegare alle ragazze e ai ragazzi il valore della legalità quando, nello stesso momento, una platea di persone in divisa applaudono per cinque minuti gli assassini di Federico Aldrovandi? Come possiamo contribuire all’educazione degli studenti se Pietro Troiani e Salvatore Gava, condannati in via definitiva a tre anni e otto mesi più cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, per aver introdotto due bombe molotov all’interno della scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001 e di averne falsamente attestato il rinvenimento, vengono (a distanza di vent’anni) promossi a vicequestori dallo stesso Stato che hanno disonorato?
Perché davanti a loro lo Stato lo difendi. Per tutta la vita racconterai lo Stato che si rialza, che vince. Ma ci è impossibile minimizzare l’abuso di potere, i soprusi, la violenza gratuita, i depistaggi. Noi non potremo mai, di fronte a ragazzi assetati di verità, nascondere la testa sotto la cattedra. Perché non ci fanno paura le “domande scomode”. Siamo soltanto a corto di risposte. E sull’orlo di una crisi di coscienza, arrivando al punto di provare vergogna, per crimini che non abbiamo commesso. E chiedere “scusa” a nome vostro, non ci basta più.